E’ il 1971. Nella grande fotografia dai toni ocra un uomo incede verso di noi, in una posa frontale, monumentale, che ricorda i seminatori di Millet e i proletari di Pellizza da Volpedo. Ha lo sguardo fisso in avanti, il passo deciso; indossa stivali, un gilet da pescatore, un cappello di feltro. In basso a destra una scritta a mano, in italiano, «La rivoluzione siamo Noi», e una firma, «Joseph Beuys».

In quella che è probabilmente una delle immagini più iconiche dell’arte del ventesimo secolo (era l’affiche della sua mostra alla Modern Art Agency di Lucio Amelio, a Napoli), l’artista tedesco appare come il viandante solitario della tradizione romantica, errante in uno spazio oltre i confini della civiltà umana, e insieme come il profeta che annuncia una nuova consapevolezza collettiva, un’arte che abbandonata la produzione di oggetti estetici si è trasformata in una pratica immateriale, in una nuova forma di relazione tra individui, comunità, mondo naturale: in una forza di cambiamento radicale che chiede a ciascuno di unirsi ai suoi ranghi.

In un’epoca cui Adorno aveva bruscamente additato il fallimento, dopo Auschwitz, della cultura e del progetto moderno e l’impossibilità di conservare la fiducia nella natura progressiva della Storia, la figura dell’artista si caricava così di una nuova missione cosmico-eroica e tornava inaspettatamente a incarnare un’idea di futuro, un’utopia realizzabile.

Con straordinaria hybris e grande efficacia automitologica, Beuys si appropriava nell’immagine tanto di una modalità visivo-verbale tipica dell’arte cristiana, specie medioevale – dove le figure sacre sono sempre contraddistinte da attributi riconoscibili e spesso da cartigli o iscrizioni che ne chiariscono identità e ruoli –, quanto di una strategia essenziale nell’epoca dell’ipervisibilità mediatica, la costruzione di una «personalità» visivamente definita da caratteri stabili, capace di imporsi all’immaginario collettivo e di mantenere salda e costante l’attenzione del pubblico su di sé.

Questo doppio registro, mitico e simulacrale, sacro e del tutto profano, caratterizza in particolare l’oggetto beuysiano per eccellenza, il cappello di feltro appunto, indossato dall’artista sin dalle sue prime apparizioni pubbliche nel corso dei festival del movimento Fluxus, nella Germania dei primi anni sessanta, come segno e sineddoche inconfondibile della sua persona pubblica.

Per Beuys, se è possibile riassumere così la sua concezione matura, il compito dell’artista, la sua responsabilità, non potevano limitarsi alla produzione di «oggetti senza conseguenze», privi cioè di funzione sociale.

Muovendo da una concezione sorprendentemente ristretta e persino ingenua dell’opera d’arte come veicolo, come forma strumentale che lascia trasparire intatto un «significato» sottostante, Beuys sviluppava in effetti una critica esplicita e radicale a quello che gli appariva l’atteggiamento dominante nell’arte della sua epoca, semplificato dall’atteggiamento di uno dei suoi fondatori, quel Marcel Duchamp il cui «silenzio» era appunto «sopravvalutato», come dichiarava, scrivendo la frase su un grande cartello, in una sua azione del 1964.

A Duchamp, così come ai suoi eredi, Beuys rimproverava in particolare di aver liquidato ogni significato dell’azione artistica e di non essere stato capace di cogliere le implicazioni pratiche, collettive, politiche, delle sue stesse posizioni, ovvero di non aver saputo sviluppare la teoria che egli stesso si incaricava ora di mettere a punto.

Al centro di questa teoria stava l’idea di un fondamentale valore terapeutico e pedagogico dell’arte nei confronti dell’uomo alienato occidentale, concepito – sulla scorta di Nietzsche – come «animale malato», e di una conseguente fuoriuscita dall’opposizione – fisicamente incardinata nella divisione della Germania del suo tempo – tra capitalismo e marxismo.

La «terza via» di Beuys si sarebbe sviluppata invece da un corpus di idee che combinavano originalmente misticismo cristiano, socialismo umanitario, teoria etnologica e l’antroposofia di Rudolf Steiner, un autore letto avidamente nel periodo di vera e propria rinascita seguito alla Seconda guerra mondiale, cui Beuys, nato nel 1921, aveva partecipato come aviatore e che in seguito diventerà lo scenario fondativo della sua mitologia personale.

Il racconto del suo salvataggio dopo l’abbattimento sui cieli della Crimea da parte di una tribù di nomadi tatari che ne avrebbero curato le ustioni con grasso e feltro, è stato in seguito puntualmente smentito dagli storici ma resta sintomatico della volontà di Beuys di piegare in senso mitologizzante la propria biografia così come dell’intenzione di fornire una chiave di interpretazione immediata di due materiali ricorrenti nel suo lavoro.

Un copricapo che nella tradizione europea del primo Novecento distingueva irrevocabilmente il borghese e il cittadino dalle altre classi e categorie sociali, diviene così per Beuys un oggetto-feticcio anche a causa del suo stesso componente principale, il feltro, che svolge nel suo sistema simbolico, insieme a miele, grasso, e altre materie organiche, un ruolo essenziale.

Per lui il feltro – materiale impermeabile e ottimo isolante termico ottenuto da lana e pelo animale pressati – rappresenta insieme il ritorno a una tecnica primordiale basata su una stretta relazione col mondo animale, e un fattore di preservazione, fisico e metaforico, dell’energia.

Il grasso infatti, con il suo processo di transizione causato dal calore – dalla sua forma liquida indeterminata, alla sua consistenza solida plasmabile –, riassume per Beuys, come si legge in una sua famosa intervista del 1979, le tre componenti essenziali – forma, movimento, caos – del processo formativo della scultura, la sua Gestaltung, e quindi i suoi equivalenti sociali – volontà, pensiero e sensazione.

Il feltro, agendo come principio di conservazione del calore, indica una possibilità di «isolamento», e come tale è usato ad esempio in Infiltrazione omogenea, un’opera del 1966 in cui un pianoforte a coda è completamente foderato di lastre di feltro cucite, ovvero di protezione individuale, come nell’abito di feltro (Filzanzug) del 1970.

Il cappello di feltro è anche l’insegna principale dello shaman, una figura fondamentale nelle culture delle popolazioni nomadi eurasiatiche, cui Beuys ha spesso associato la sua azione. Come lo sciamano, e in una prospettiva simbolica e anche direttamente politica ma non più religiosa in senso tradizionale, l’artista è infatti colui che mette in connessione le potenze ctonie della Terra e il mondo umano; è il tramite della potenza cosmica degli elementi naturali, il garante e il ristabilitore di un equilibrio che la modernità e le sue forze disgregatrici hanno infranto. Indossando il cappello, Beuys si propone così nelle sue performance come la figura incaricata di esporre il trauma collettivo e di indicare una possibile via d’uscita, un percorso di guarigione i cui connotati rimangono sfuggenti ma al cui centro sta il ristabilimento dell’armonia spezzata tra umanità e mondo, tramite il potere creativo connaturato a ogni individuo.

Questa è la prospettiva in cui va inteso il suo slogan più famoso e controverso: Jeder Mensch ist ein Künstler, «ognuno è un artista». Ciò non significa ovviamente che tutti sono buoni pittori o scultori, ma la possibilità per l’uomo di un’autentica autodeterminazione che trasfonda nella vita del singolo l’integralità di un potenziale umano non più costretto, diminuito, annullato dai meccanismi alienanti della società industriale.

Beuys, ha scritto lo storico dell’arte Eric Michaud, voleva fare dell’arte lo strumento della resurrezione e dell’unificazione dell’umanità. In questo l’artista moderno ritrovava la lezione del suo grande precursore tedesco Dürer, che aveva cercato di ristabilire l’identità originale tra Dio e l’uomo attraverso l’uso del potere creativo. E questo era anche il messaggio di Beuys al mondo contemporaneo.