Appena un anno fa era ancora «l’altro Matteo», il leader furbo e spregiudicato che aveva resuscitato una Lega già nel feretro riportandola al livello di partito di media grandezza, condannato tuttavia al ruolo di potente comprimario.

Il sorpasso a sorpresa su Fi ha cambiato tutto: tre punti e mezzo percentuali, un capitale inestimabile in termini di peso politico.

Da quel momento Matteo Salvini è diventato onnipresente, il più citato, spiato, chiacchierato e discusso, il più odiato e il più amato.

La stessa sorte era toccata per lunghi decenni a Silvio Berlusconi e per fuggenti annetti a Matteo Renzi: i leader che hanno nel corso del tempo trasformato la politica in un referendum permanente su se stessi e hanno diviso il Paese lungo le coordinate del tifo sostituendole a quelle della politica.

Salvini è stato l’uomo del 2018. Nell’anno che verrà capiremo se somiglia al Cavaliere di Arcore, che fu capace di mettere a frutto la vera e propria ossessione di cui era oggetto per egemonizzare un paio di decenni o al ragazzo di Rignano, che da quella stessa ossessione di massa, dalla divisione del Paese in tifosi e odiatori, fu invece travolto in breve tempo.

Questione di abilità comunicativa, di sintonia a pelle con gli umori del popolo votante, certo, ma anche questione di scelte politiche che, nonostante sembrino cancellate dalla guerra tra like e dislike, continuano a pesare più dei post con la Nutella o delle pennichelle con ex fidanzate su Fb.

I dilemmi che metteranno alla prova il talento di Salvini come politico e non solo come propagandista saranno nel 2019 parecchi.

L’alleanza con M5S, gigante d’argilla, si è dimostrata sin qui redditizia grazie all’inconsistenza dei pentastellati. Inizia però a costare consensi solidi, quelli della base storica del nord e nord-est, sostituiti con quelli volatili per antonomasia del Sud.

Sfilarsi però significherebbe barattare l’accondiscendenza di Di Maio con la ben più ostica e ferrata Forza Italia, passando per una compravendita che rafforzerebbe soprattutto la truppa azzurra o per elezioni anticipate sgradite a Mattarella e ai soliti mercati.

Scegliere il momento e i modi adatti per liquidare la società richiederà miracoli di equilibrismo e tempismo. Sbagliare significherebbe precipitare nello stesso vortice negativo che portò Renzi a dilapidare in tempi record un tesoro di consensi e fiduciose aspettative.

L’economia è il secondo scoglio, ancor più minaccioso.

Nella sostanza, la campagna europea si è risolta in una disfatta. Salvini e Di Maio hanno salvato solo la possibilità di sfruttare le loro misure di bandiera come strumenti contundenti di propaganda spiccia, ma probabilmente il leghista sa benissimo che si tratta di una campagna col fiato molto corto.

In cambio della concessione, il governo gialloverde ha dovuto rendere la manovra «espansiva» compiutamente recessiva e farcirla di clausole che somigliano da vicino a una garrota. Il bluff reggerà forse, e non è neppure detto, sino alle elezioni europee ma non oltre.

La prossima manovra sarà per qualsiasi governo una via crucis. Gestire una fase così difficile, in un quadro mondiale che potrebbe essere più che tempestoso, sarebbe arduo per chiunque ma riuscirci in tandem con un M5S, che deve per forza reclamare parità assoluta in ogni spesa, sarà molto più difficile.

La Lega, a differenza dei 5S, qualcuno da mettere in campo anche in fase critica ce l’ha, ma poco compatibile con gli alleati.

Nel 2018 Salvini, pur se aiutato da critici involontariamente complici, si è dimostrato un campione della propaganda. Nel 2019 non gli basterà.