La pandemia in corso ha provocato tre distinte emergenze: un’emergenza sanitaria, un’emergenza economica e un’emergenza politica. È evidente che la prima non potrà essere risolta dalle attuali misure di contenimento: il COVID19 riflette l’enorme problema della contiguità crescente del Sapiens con le altre specie. Allo stesso tempo, proprio l’emergenza sanitaria – ancora più delle catastrofi climatiche – costringe a ridimensionare la centralità umana che il concetto di antropocene, oggi così in voga, pare sottintendere. La natura è enormemente più forte di noi e continueremo ad averne prova per lungo tempo: ambiente, salute (sopravvivenza, anzi) e politica si rivelano nuovamente intrecciati. A quattrocento anni dal Leviatano la politica potrebbe tornare alla sua funzione elementare: proteggere i cittadini dalla minaccia di morte.

L‘emergenza economica aggredisce le condizioni di vita dei più e quelle di riproducibilità del capitale, ovvero dei suoi margini di profitto. L’inevitabile decisione politica di contenere il numero dei morti – che accomuna liberaldemocrazie e regimi totalitari – sconvolge le prospettive economiche, favorendo dappertutto un calo forse a due cifre del prodotto interno. Tuttavia il capitale, come accade da tempo, sembra capace di vedere lontano. Ad esempio, lo smart working rappresenta una straordinaria occasione per efficientare la produzione e incrementare il controllo su tutti coloro che col capitale entrano in rapporti di esclusione e/o sfruttamento.

L‘emergenza politica investe la UE e la sua stessa giustificazione. La UE ha rappresentato fin dalle origini uno dei tentativi più sofisticati di riduzione della società al mercato. Il suo assetto programmaticamente impolitico si è manifestato in modo esemplare in occasione della crisi del 2008 e poi nella gestione del debito greco. A prescindere dai gravi danni alla vita stessa dei greci, si registrò in quel caso la piena corrispondenza tra la configurazione dell’Unione – area di libero scambio garantita dalla moneta unica e dai conseguenti vincoli imposti agli stati membri – e il tipo di problema che essa era chiamata ad affrontare. La crisi aperta dal coronavirus capovolge lo schema: oggi la recessione si presenta come effetto di una causa esogena che incide direttamente su quelli che Agnes Heller considerava i valori fondamentali dell’Occidente moderno: vita e libertà.

Ciò spiega il disorientamento dei vertici UE i quali, investiti da un fatto così nuovo, non trovano altra strada che affidare a Olanda, Germania, Austria ecc. il compito di chiudere a qualsiasi ipotesi di «mutualizzazione» del debito – in sintesi: «sforate ma poi rientrate». Sia chiaro: è difficile che una parola d’ordine come “Eurobond” abbia un seguito concreto (come stiamo constatando); ed è ingenuo pensare che il virus agisca come motore costituente di una nuova unità europea. Al più, il “sovranismo” (l’utile idiota di turno, nelle sue varie manifestazioni) potrebbe ottenere un allentamento dei parametri, rafforzando però il presupposto istituzionale della costruzione europea: la sovranità dei singoli stati. La retorica che individua nello scontro tra “europeisti” e “populisti” il nucleo dello psicodramma continentale non considera infatti che la UE funziona come una gigantesca stanza di compensazione, retta da regole vincolanti quanto si vuole ma sempre funzionali alla negoziazione tra soggetti politicamente sovrani con diritto di veto.

Il parziale svuotamento della sovranità statuale classica è stato concepito e attuato dalla UE solo in quanto custode della subordinazione della politica agli imperativi dell’economia neoliberale: un sorvegliante mostruoso mai apparso prima sulla faccia della terra. Un pensiero lucido dovrebbe dunque archiviare la batracomiomachia europeisti-sovranisti e rendere visibile il piano del conflitto reale: quello tra sovranisti di serie A (Germania e stati satelliti) e sovranisti di serie B (il cui unico, vero obiettivo è conquistare un posto a tavola più comodo); e l’altro davvero decisivo, e ancora latente, fra il capitale nella sua forma odierna e le popolazioni piagate prima da impoverimento e precarietà, ora dalla malattia.

Appare allora chiaro il rischio altissimo che stiamo correndo in Europa: gli stati sembrano difficilmente in grado di far fronte da soli alle conseguenze della crisi economica e alla domanda diffusa di protezione, ma le istituzioni europee avanzano incerte, prigioniere del loro paradigma fondativo. L’insofferenza crescente nei confronti dell’amministrazione ademocratica della UE rischia così di esplodere, a vantaggio delle destre sovraniste quando non francamente neofasciste.

Tuttavia l’emergenza corrode l’equilibrio apparentemente inscalfibile dell’ordine europeo. La sola esigenza di non lasciare morire troppe persone, di alleviare la sofferenza degli elettori-consumatori, introduce una contraddizione nel dispositivo egemone. Essa va allargata fino alla sua rottura: il patto di stabilità, ora solo sospeso, deve essere definitivamente consegnato al passato. Il costo enorme della catastrofe economica deve essere affrontato da chi, a partire dagli anni ’80, ha tratto vantaggio dalla destrutturazione del welfare, dalla globalizzazione finanziaria e industriale, dall’impoverimento del lavoro.

Che sia dunque il capitale a pagare i danni della crisi, e non i lavoratori indeboliti da decenni. Che siano i grandi patrimoni e i grandi profitti, in Italia come in altri paesi, protetti fin qui da stati incapaci di fare valere il principio di universalità, a finanziare i servizi pubblici e i necessari trasferimenti. Proprio nella risposta alla domanda «chi pagherà il debito?» si pone l’unica vera discriminante tra una sinistra che non tema di essere tale e le altre forze politiche, sovraniste o euro-liberali.

Capitale e vita appaiono nuovamente, nello sconvolgimento dell’ordine neoliberale, i termini di una contraddizione insanabile. Ma solo una forza di dimensione continentale sembra all’altezza di farvi fronte.