Torna al Teatro alla Scala dopo sei anni Il dissoluto punito o sia Il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart (repliche fino al 6 giugno), sardonico exemplum in cui il caos prodotto dalla dissolutezza (la disgregazione sociale che genera l’eros incontrollato del libertino), attraverso il rito della punizione (la morte), viene riconvertito in ordine. Sprofondato Don Giovanni, tutti gli altri personaggi, giustamente «vendicati dal cielo», tornano alle loro vite: Donna Anna e Don Ottavio al loro imminente matrimonio, Donna Elvira in un «ritiro», Masetto e Zerlina a casa per cena, Leporello all’osteria. Ma non dobbiamo dimenticare ciò che recita il sestetto fugato finale: «de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual!».

La vita si rigenera attraverso la morte, in una dimensione di eterno ritorno, dove la dissolutezza sarà sempre un’orgia finale che precede (e rende possibile) il ritorno all’ordine. L’allestimento del canadese Robert Carsen, apertura di stagione del 2011, si palesa al pubblico durante l’ouverture con un enorme specchio molle a riempire il boccascena ed è tutto costruito su un gioco di rispecchiamento tra il palco e la platea (le scenografie di Michael Levine altro non sono che riproduzioni fotografiche in varie scale del sipario scaligero) e su una moltiplicazione continua in lungo e in largo dei fondali (che, ripeto, non sono che sipari).

Tutto si svolge nell’intercapedine tra il sipario reale e quelli fittizi, sulla superficie dello spettacolo (perché la profondità rimanda sempre alla superficie), finendo col fare di quella superficialità l’elemento centrale della rappresentazione. Negando programmaticamente l’accesso a ogni presunta profondità: dopo il fugato finale che tutti meno Don Giovanni (sprofondato poco prima) intonano nel proscenio con alle spalle l’ultimo finto sipario, quando quest’ultimo si alza, riappare Don Giovanni che avanza dal fondo del palco vuoto (nero con funi e pulegge ben in vista) e, come fosse Prospero nella shakespeariana Tempesta, con un gesto fa sprofondare le sue vittime, intrappolando l’opera in una circolarità che ben rappresenta l’indifferenza della «vita» rispetto alla «morte» cantata poco prima, ma anche l’illusorietà che nella finzione imprigiona ogni sprofondamento.

Dopo un primo atto un po’ incerto, nel secondo atto la direzione dell’estone Paavo Järvi, direttore musicale dell’Orchestre de Paris, decolla trovando un equilibrio con l’esuberanza dei cantanti e con le fragilità fisiologiche delle loro voci, scandendo un ritmo che coniuga esaltazione, vitalismo, tenerezza e malinconia, delibando perfino sottigliezze timbriche tutt’altro che ovvie (un esempio su tutti: «Batti batti bel Masetto» che il singulto del violoncello fa sembrare una preghiera). Thomas Hampson scolpisce con energia inesauribile un don Giovanni che compensa l’esaurirsi della sua prestanza fisica (ben iconizzata da una voce affaticata e spesso sfibrata dal grido) con la consapevolezza data dall’età (che prende la forma di un dominio assoluto della scena).

Irresistibile anche la verve del Leporello di Luca Pisaroni, pur con qualche limite vocale in acuto. Lo stesso si dica del Masetto di Mattia Olivieri. Squillante e agile, a meno di qualche incertezza, il Don Ottavio di Bernard Richter. Impressionante per timbro e volume il Commendatore di Tomasz Konieczny. La voce di Hanna-Elisabeth Müller sta a Donna Anna come il piede di Cenerentola alla sua scarpetta: perfettamente calzante. Giustamente brunita sebbene talvolta un po’ scomposta la voce della Donna Elvira di Anett Fritsch. Esile nella tenera sensualità la Zerlina di Giulia Semenzato.