In coincidenza con la morte di Igor Stravinskij, nel 1971, tre ingegneri elettronici della Intel, tra cui l’italiano Federico Faggin, inventarono il microprocessore, un pezzettino di silicio in grado di contenere centinaia (e poi migliaia, milioni) di transistor. Era l’inizio di una rivoluzione tecnica paragonabile al passaggio dalla scrittura a mano alla stampa a caratteri mobili, destinata a produrre trasformazioni radicali anche nella cultura musicale.

A distanza di cinquant’anni, è palpabile l’impressione che il grandioso funerale veneziano di Stravinskij, con il vecchio Gian Francesco Malipiero a osservare di nascosto da una finestra, come colpito al cuore, il passaggio della gondola funebre sulle acque del Canal Grande, segnasse in realtà il requiem di quattro secoli di civiltà musicale occidentale. Ultima e estrema sintesi di un linguaggio musicale rimasto bene o male unito da Bach fino agli irrequieti sussulti della Neue Musik, Stravinskij aveva deciso di riposare in mezzo alle acque letee di Venezia, dove «beviamo il vino dell’oblio, dolce e soave», scrisse l’autore russo suo contemporaneo Pavel Muratov.

Nell’ultimo scorcio di secolo, l’informatica ha prodotto una sorta di mutazione genetica dei processi compositivi, che hanno imboccato altre strade, lontane dal tradizionale principio mensurale della musica occidentale, inoltrandosi sempre più a fondo nelle viscere della materia sonora. Lo stesso Stravinskij indicava, in Dialogues and A Diary, accanto a una nutrita serie di punti divergenti, alcune analogie tra sé e Arnold Schönberg, l’altro polo attorno al quale si erano aggregate le migliori energie della musica del Novecento, due delle quali – in particolare – sembrano accomunarli nel ruolo di tardi profeti dell’Antico testamento: «per entrambi, i numeri sono cose (numbers are things)» e «ognuno di noi compose per amore dei suoni concreti (for concrete sounds), diversamente dall’ultimo Webern, in cui la scelta del suono rappresenta la fase finale».

Cantore di questo radioso tramonto della musica occidentale, Roman Vlad ha dedicato a Stravinskij buona parte della sua attività sia come musicologo, sia come divulgatore. La ristampa di una monografia di rilevanza storica qual è il suo Stravinskij (Il Saggiatore, pp. 486, € 42,00), pubblicato in origine nel 1958 da Einaudi e rimaneggiato più volte fino al 1983, è assai utile oggi per mettere in luce l’enigmatica maschera seriale indossata dal musicista russo nell’ultima fase della sua produzione, quando il fuoco della Seconda scuola di Vienna, con la scomparsa di Schönberg nel 1951, si era ormai estinto e l’esperienza della «trinità ipostatica della musica del ventesimo secolo», come Stravinskij la definiva – Schönberg=Padre, Berg=Figlio e Webern=Spirito Santo – era definitivamente storicizzata. Testimone proprio di quest’ultima fase della produzione di Stravinskij – che all’indomani del suo travestimento neoclassico più sfacciato, l’opera The Rake’s Progress, allestita alla Fenice di Venezia l’11 settembre del 1951, lasciava di stucco per l’ennesima volta il mondo musicale adottando la tecnica seriale del defunto rivale viennese – Vlad fu inevitabilmente impressionato da una simile svolta: proveniva culturalmente dal mondo mitteleuropeo, infatti, e aveva una conoscenza diretta di quel linguaggio, noto in Italia solo a una conventicola di addetti ai lavori, tanto da scrivere nel 1958 una Storia della dodecafonia per Suvini Zerboni. Il carteggio Stravinskij-Vlad, meritoriamente aggiunto in appendice alla nuova edizione dal curatore Massimiliano Locanto, rivela come il primo rapporto diretto tra i due musicisti risalga al 1954, quando il maestro russo aveva ormai abbandonato ogni forma di neoclassicismo.

Il mondo dell’avanguardia, attorno al quale gravitava anche Vlad, era ancora segnato dalla contrapposizione tra il «progresso» di Schönberg e la «restaurazione» di Stravinskij delineata da Theodor W. Adorno nella Philosophie der neuen Musik, pubblicata in Germania nel 1949. Vlad intuì immediatamente che la lettura manichea di quel saggio, tradotto in Italia da Einaudi solo nel 1959, impediva di cogliere l’attualità della figura di Stravinskij, e soprattutto di individuare nel lavoro dei due maggiori artefici della musica moderna il carattere unitario del loro compito storico, ossia rappresentare l’estremo confine del linguaggio fondato sul sistema temperato, così come si era configurato dai tempi di Bach in poi.

Tutti gli aggiornamenti apportati via via da Vlad alla prima versione (che traslitterava il nome in Strawinsky, e consisteva in un ciclo di conferenze radiofoniche per il Terzo Programma del 1955) approfondiscono gli sviluppi della fase seriale del musicista russo, a partire dalla meticolosa e acuta analisi di Threni, scritta nel 1958 e aggiunta per l’edizione inglese del libro, pubblicata dalla Oxford University Press nel 1960: da qui, forse, la definitiva completa fiducia del diffidente e a tratti scorbutico Stravinskij.

L’esegesi di Vlad, infatti, si estende ben al di là di una mera divulgazione del maestro russo nella cultura italiana, proprio in virtù del lungimirante sforzo di superare un tema scottante come l’antinomia con Schönberg, che ha intorbidato a lungo la critica del secondo Novecento. La perspicace attenzione per l’ultimo Stravinskij è un tratto distintivo del lavoro di Vlad, che ha influito in maniera rilevante sulla critica internazionale e in particolare del mondo anglosassone, come nota correttamente Massimiliano Locanto nell’ampio saggio introduttivo alla ristampa, dove prende estesamente in esame le ragioni dell’incontro tra i due musicisti, evidenziando – alla luce di una letteratura critica aggiornata e maneggiata con sicurezza – non solo gli elementi che rendevano Vlad sensibile alla poetica del maestro russo, ma anche, i non scontati motivi di apprezzamento di Stravinskij, attento a orientare la critica verso i suoi scopi, per la lettura autonoma e indipendente del giovane collega italiano.

In comune avevano, certamente, l’amore per il lavoro manuale della musica, la necessità di distillare le idee su uno strumento concreto come il pianoforte, che entrambi padroneggiavano componendo. La simpatia per Stravinskij, del resto, era un’eredità del maestro di Vlad, Alfredo Casella, che con la sua monografia postuma del 1947, scritta a pochi mesi dalla morte, consumando le ultime energie di un corpo sfinito, ha lasciato non solo un ritratto critico acuto e obiettivo del maestro russo, ma anche un commovente testamento spirituale e di fede nella rinascita dell’arte europea.

Vlad, di pochi anni più anziano del gruppo di giovani eversori della musica europea capitanati da Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, ha fatto in tempo ad accogliere in sé i germi della tradizione, in maniera analoga forse a quella di Bruno Maderna, immunizzandosi dall’iconoclastica tabula rasa scatenata dopo la guerra dalla nuova generazione di avanguardisti. Il suo orecchio riusciva ancora a distinguere in Schönberg e Stravinskij la scintilla rivoluzionaria che condividevano, al di là delle divisioni estetiche che li separavano. Le profonde affinità di Vlad verso il mondo di Stravinskij erano anche derivate dalla loro comune condizione di déraciné, provenienti da due imperi crollati nel devastante terremoto politico del primo Novecento.

Stravinskij sentì la perdita della madrepatria come una crepa incolmabile tra sé e il luogo in cui era nato, in primo luogo per la privazione della lingua. Essendo cresciuto con una governante tedesca assai più affettiva della madre, il musicista russo era abituato fin dall’infanzia a vivere e pensare in un’altra lingua, ma il punto era come proiettare simbolicamente sulla musica vocale il proprio esilio. Si mise alla ricerca ossessiva di un «pur langage sans office», quel puro linguaggio senza fini cui si riferisce Saint-John Perse, altro rifugiato dall’Europa in fiamme. Chi meglio di Vlad, nato con il passaporto di uno Stato che non esisteva più, in una famiglia con un padre ortodosso e una madre cattolica, poteva comprendere il dolore inconsolabile per la perdita di quanto ci si è lasciati per sempre alle spalle.