Nel 1921, cent’anni fa, negli Stati Uniti, il mercato della musica era, con pochissime eccezioni, saldamente nelle mani di impresari, discografici e mediatori in genere bianchi. A volte considerati, per via delle imbecillità legate intrinsecamente alla catalogazione degli esseri umani per sfumature cromatiche della pelle, non proprio bianchi: ad esempio gli italiani arrivati dal Meridione d’Italia, o gli ebrei. Gente un po’ sospetta, non propriamente bianca, non esattamente negra.
Buona dunque a mediare tra il mondo Wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti) e quel redditizio bacino di manodopera a buon prezzo che era il nascente mondo dell’intrattenimento organizzato con musicisti neri. Neri spesso e volentieri con un piede già nella piena consapevolezza artistica, nell’autocoscienza di star facendo qualcosa di rilevante, magari sfruttando l’intelligente gioco alla dissimulazione del signifyin’: dire e suonare cose con molti strati di senso, i più inattingibili per i bianchi.

UN EVENTO EPOCALE
Fu dunque qualcosa di epocale, se le parole hanno un senso ancora non deprivato dall’eccesso di enfasi che oggi avvolge la rete del linguaggio, che nel 1921 sia nata la prima etichetta discografica inventata e gestita da neri. È una bella storia, e la riprova che, anche in piena segregazione eretta a sistema, c’era qualcuno che rischiava di persona per garantirsi spazi di manovra, aprendo, a forza e con coraggio, le maglie dell’allucinante rete razzista di controllo. Non sarebbe potuta nascere a Sud, un’etichetta che documentasse la allora «giovane» musica afroamericana.
C’era una bella differenza tra il brutale Dixie dei nostalgici confederati nel profondo e quel Nord che aveva bisogno di operai e facchini, magazzinieri, macellai e stradini, ma anche di musicisti che alimentassero il crescente circuito dell’entertainment. Il tutto a basso o bassissimo prezzo, si intende, non fosse mai che si andassero a saldare le ragioni dell’uguaglianza di diritti civili dei neri con quelle del socialismo e del sindacalismo organizzato. La prima casa discografica nera del pianeta si chiamò, con eleganza e ironia, Black Swan, il cigno nero. L’elegante animale che «canta per ultimo», secondo la leggenda, campeggiava nel logo della label. La Black Swan prese le mosse a Harlem, il quartiere di New York che avrebbe dovuto essere, ai primi del ‘900, area di residenza per ricchi borghesi, e ridotto poi a dormitorio (a caro prezzo, ovviamente) per neri. Lì, a partire dagli anni Venti, pulsò uno dei cuori più vigorosi e creativi della nuova musica afroamericana, inserita in un circuito onnicomprensivo di socialità, amicizie, solidarietà attive (ad esempio per pagare l’affitto con le collette, i cosiddetti «rent parties»), gusto per la bellezza e la novità. È quel «rinascimento nero» di cui s’è parlato spesso, quello che aveva tra i suoi protagonisti, ad esempio, nell’elegante e colto Duke Ellington, sempre in scena al Cotton Club, Fletcher Henderson, Cab Calloway.
La Black Swan nacque in realtà come Pace Phonograph Corporation, prendendo il nome da quell’Harry Herbert Pace, afroamericano selfmade dal carattere d’acciaio che, assieme a William Christopher Handy, padre nobile nero del jazz e del blues, editore musicale, aveva già avviato nel 1912 una collaborazione, poi via via esauritasi. Da subito l’etichetta, nata con un prestito di 30mila dollari, funzionò da collettore di attività, entusiasmo imprenditoriale e capitali forniti da quei pochi afroamericani che erano riusciti a costruirsi una piccola fortuna economica: ad esempio W.E.B. Du Bois, saggista e editore di The Crisis, la rivista per afroamericani che lì riversò direttamente i propri profitti, e che ospitò di conseguenza buona parte delle campagne pubblicitarie per far conoscere i dischi dell’etichetta. L’attrattivo nome Black Swan spuntò subito dopo, a ruota: era allora un segnale immediatamente comprensibile a tutto il pubblico afroamericano, perché il Cigno nero era Elizabeth Taylor Greenfield, dea dell’opera con la pelle scura. Invece, in quel momento storico, le uniche voci nere non «classiche» incise erano state quelle di Bert Williams su dischi Columbia, e di Mamie Smith per la piccola Okeh, il primo disco che in qualche modo testimoniasse dell’esistenza del blues. Un botto milionario.

GENIO IMPRENDITORIALE
Il Cigno nero fu una perfetta operazione di marketing, intercettando un bisogno che covava da tempo, tra le masse di salariati neri con qualche spicciolo da riservare ai settantotto giri e ai cilindri. Servivano a quel punto talenti musicali adeguati, per far decollare le sorti economiche ed estetiche della Black Swan. Il primo nome coinvolto fu quello di Fletcher Henderson, formidabile bandleader – nella sua orchestra passò anche uno svettante Louis Armstrong – , arrangiatore dal tocco personale e raffinato, tant’è che nel periodo in cui la fortuna gli girò contro, costruì invece quella della celeberrima big band di Benny Goodman con i suoi arrangiamenti. Alla Black Swan Henderson però non ebbe il ruolo di arrangiatore, ma di manager organizzatore per le sedute d’incisione, pianista e bandleader del gruppo che avrebbe supportato gli artisti chiamati a incidere per l’etichetta. Arrangiatore e poi anche direttore musicale fu nominato William Grant Still, formidabile compositore classico e direttore d’orchestra.
Ovviamente il percorso non fu piano e in discesa: ad esempio quando si trattò di far stampare i primi dischi, un’etichetta di bianchi comprò la fabbrica più vicina dove si stampavano le copie, pur di non far usare i macchinari all’etichetta «negra». Così Pace dovette spedire i suoi master in Wisconsin, a Port Washington, per avere garantite le stampe. E nella prima pubblicità che fece uscire rimarcò, nello slogan: «Gli unici e veri dischi di gente di colore. Gli altri sono solo imitazioni». I primi tre dischi, registrati nell’aprile del ’21 furono incisi dal baritono nero di Denver C. Caroll Clarke, dalla cantante di vaudeville Katie Crippen, eccellente blues woman, e da Revella Hughes, soprano dal bel nome, a New York.

PUNTO DI SVOLTA
Il punto di svolta arrivò per la Black Swan con il contratto alla grande Ethel Waters: Fletcher Henderson raccontò poi di aver sentito una voce angelica e poderosa provenire da un appartamento della 135th street, ad Harlem. Era lei. Le fece incidere in studio Down Home Blues e Oh Daddy, e fu il boom. Ci sono anche altre e diverse versioni della storia, ma la sostanza resta immutata: la Black Swan aveva trovato un’artista nera di punta, una stella da mezzo milione di copie in sei mesi. Un bel volano per altre carriere: tant’è che a quel punto la Black Swan entrò nel circuito di fornitori di artisti per il circuito di vaudeville itinerante. Ethel Waters in testa, con i Black Swan Serenaders, a conquistare le platee del nord e del Sud. Ma si perse l’opportunità di incidere l’imperatrice del blues, Bessie Smith, giudicata vocalmente «troppo aspra». Fu il puro più altro di crescita, una cavalcata trionfale.
Pace a questo punto aveva un edificio di proprietà tra Seventh Avenue e la 135th, trenta impiegati, un’orchestra stabile, mille agenti e venditori sparsi per il mondo a pubblicizzare i dischi Black Swan. Compartecipazione in una fabbrica per stamparsi i dischi. Fu un bel sogno, ma presto messo in crisi: rabbiosa la risposta di etichette come Okeh, Paramount, Columbia, per accaparrarsi fette del lucrativo nuovo mercato «nero». Giochi al ribasso e al rialzo, dumping. E il passo falso di Pace di far incidere anche jazzisti bianchi, come gli Original Memphis Five. Poi un giorno si guastarono gli impianti potenziati per stampare i dischi, che non riuscivano più a star dietro agli ordini. La Black Swan Phonograph Co. si afflosciò su se stessa come un castello di carte. Nel dicembre 1923 fu dichiarata la bancarotta, nel maggio del ’24 la Paramount rilevò l’intero catalogo. L’ultimo canto del Cigno Nero.