L’ultimo lavoro di Gilberto Lonardi, Il mappamondo di Giacomo Leopardi, l’antico, un filosofo indiano, il sublime del qualunque (Marsilio «saggi», pp. 267, € 25,00) corona il lunghissimo corpo a corpo del suo autore con la poesia leopardiana, e arriva al culmine di una trilogia aperta da L’oro di Omero (Marsilio, 2005), e proseguita più di recente con L’Achille dei ‘Canti’ (Le Lettere, 2017). È piuttosto chiaro sin dai titoli citati che un tale, continuo confronto si imperniava, fin qui, sull’amore incontrastato che Leopardi nutre da subito per la Grecia antichissima («Cosa terribile: non aver conosciuto Omero» scriveva per esempio Giacomo, introducendo la Titanomachia di Esiodo da lui tradotta nel 1817, mostrandosi a tutti i costi come un graeculus). Ma ora Lonardi, oltre a risalire di nuovo con Leopardi verso l’Antico – vedi per esempio la splendida lettura della canzone Alla sua Donna (1823), segnata dall’attenzione di Giacomo per un lirico come Anacreonte – sposta il suo sguardo verso un altro epicentro profondo della scrittura leopardiana, ovvero l’Oriente. In questa indagine alla dimensione-tempo si sostituisce dunque – o meglio si affianca – una dimensione decisiva per l’impulso immaginativo di Leopardi, cioè lo spazio: ecco il motivo di quel mappamondo scelto allora per il titolo. Ed eccoci, d’altra parte, davanti a un’altra «lunga durata» leopardiana, cioè l’interesse che Giacomo riserva al mondo orientale, che comincia almeno con un’opera di compilazione erudita come la Storia dell’astronomia – scritta a soli quindici anni, nel 1813 – e arriva fino a uno dei capolavori del Leopardi poeta, cioè il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: una lirica che è, infatti, il nucleo principale di queste pagine, e a cui è dedicato il capitolo più cospicuo del volume.
Che l’immaginazione di Leopardi si dedichi con forza all’Oriente lo si capisce in effetti da vari momenti, anche a stare al solo Zibaldone di pensieri, nel quale Giacomo si appunta l’ipotesi – nell’aprile del 1826 – di far pronunciare un discorso sul Male proprio a un «filosofo antico, indiano». Ma è il pastore del Canto notturno a coniugare perfettamente questa sincronia fra Grecia originaria e Oriente: il pastore canta come un antichissimo aedo, addirittura mimando la formularità delle omeriche ‘parole alate’ (questo, per Lonardi, il segreto della ritornante rima in –ale, che attraversa l’intera lirica). E, al contempo, lo stesso pastore torna proprio al problema filosofico del Male («A me la vita è male», dice un verso memorabile del Canto notturno), affrontato con l’aiuto di alcuni grandi nomi o figure del mondo orientale: da Arimane – dio malvagio cui Leopardi vorrebbe dedicare addirittura un inno, del quale resterà poi soltanto un abbozzo – fino a Buddha, le cui verità sembrano stingere su alcune conquiste della riflessione leopardiana, come l’idea che l’intera realtà sia malvagia («Tutto è male», si legge in una vertiginosa pagina dello Zibaldone, nel 1826). O che lo stesso «principio delle cose, e di Dio stesso» sia «il nulla» (così Leopardi, di nuovo nello Zibaldone, già nel 1821): fra letture e scorribande nelle stanze silenziose della biblioteca paterna ci troviamo di fronte ad alcune acquisizioni e ad alcuni percorsi davvero nuovi, pur nel mare magnum di una critica sempre in movimento come quella leopardiana. Ma più di tutto conta che questa forte attrazione per l’Oriente abbia infine bisogno, per inverarsi, di quell’oggetto ricco e strano che è la poesia: abbia bisogno di un canto.
Ciò che soprattutto contraddistingue il lavoro di Lonardi è, di conseguenza, l’assoluta priorità che qui viene accordata al fatto poetico, anche al di là del tema orientale. Basterà considerare, per intendersi, queste poche righe: «I grandi poeti è appunto nell’atto del fare poesia che spesso ‘afferrano’ un di più: vedono oltre la loro vista (…). La loro poesia riconosce, sa oltre quanto loro stessi sanno; sa qualcosa o molto che lei solo afferra e manifesta». Al lettore si mostra presto un’evidenza: per Lonardi non c’è alcun possibile incontro con il pensiero di Leopardi se non ci si misura anche con la trama dei versi e delle rime, insomma con l’ambiguità della poesia. È significativo, in tal senso, che questo studio si chiuda con un capitolo dedicato proprio al titolo del libro di liriche leopardiano, cioè Canti: un titolo assolutamente nuovo per la tradizione italiana, eppure – insieme – potentemente antico, in debito con quell’oralità arcaica di cui Leopardi sente forte la seduzione, e proprio nel giro di tempo – teste lo Zibaldone, grosso modo fra il 1828 e il 1830 – in cui nascono i cosiddetti canti pisano-recanatesi, e dunque lo stesso Canto notturno.
Tenere al centro il Leopardi poeta non significa qui, tuttavia, fare di Leopardi soltanto un grande classico della tradizione lirica italiana. Significa, piuttosto, rendersi conto che proprio all’altezza dell’esperienza leopardiana la tradizione nostrana si estingue e comincia qualcos’altro. Si potrebbe dire che il libro dei Canti è fra i primi campioni della modernità poetica a interiorizzare un’impossibilità, una sorta di scacco della poesia, incapace di dire fino in fondo la realtà (e infatti, in una delle ultime pagine del libro, Lonardi ricorda proprio l’impuissance della poesia moderna per come la diagnosticava fra gli altri Mallarmé). Leopardi è insomma la vetta ultima di una tradizione – che guarda in realtà fino alla lirica greca, ben oltre le sue origini romanze – e che al contempo segna un corso diverso, «fa» lui stesso tradizione. Per questo è importante leggere Leopardi, per così dire, in campo lungo: tenendo conto delle sue radici, e insieme di quanto è venuto dopo di lui e è nato dalla sua stessa svolta. Ed ecco Lonardi ricorrere allora al Montale di Notizie dall’Amiata per La sera del dì di festa, oppure spendere il nome di Caproni per rileggere con piena ammirazione – e non come un idillio in ritardo o non riuscito, come è stato erroneamente fatto – il grande Tramonto della luna, scritto quando Leopardi è ormai vicino al congedo dall’esistenza.
L’ultimo Leopardi è anche il poeta che, all’ombra del Vesuvio, scrive la monumentale Ginestra, che i lettori hanno interpretato, in diversi modi, come una lirica-testamento, il cuore pulsante della fase finale della parabola leopardiana. Un indizio importante dell’originalità dell’atteggiamento critico che si incontra fra queste pagine è il fatto che Lonardi, quando guarda all’ultimo Leopardi, si scelga come punto elettivo non il più lungo e imponente fra i Canti, dedicato al fiore del deserto, ma una breve poesia, apparentemente marginale – che è peraltro la traduzione di una lirica francese di Antoine-Vincent Arnault – ovvero Imitazione, che nel libro leopardiano segue immediatamente la Ginestra, come un suo contraltare. Qui una foglia che cade dal proprio ramo – dunque un altro agente vegetale, come la ginestra, e ancora più in basso di lei nella scala dell’essere – pronuncia poche parole sapienziali sull’inesorabilità del ciclo naturale e sul mistero del reale («vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro», dice la foglia). Nell’immagine povera della foglia che cade Lonardi ritrova quel che lui stesso chiama – sfruttando un passo zibaldoniano – il ‘sublime del qualunque’: cioè l’idea che anche elementi periferici della realtà – una foglia, una pastore senza nome che innalza canti alla luna, il canto stesso di una filatrice – possano sprigionare il pathos della grandezza. Passa anche da qui la differenza di Leopardi, sempre valorizzata da Lonardi, diciamo pure la sua eccezionalità nel panorama della prima modernità italiana: dalla sua capacità di abbassare l’io, di mettergli la sordina, rendendo così la poesia il luogo di una creaturalità dolente e fraterna.