«Hopp, hopp, hopp, / Pferdechen lauf Galopp! / über Stock und über Steine / aber brich Dir nicht die Beine» – «Hopp, hopp, hopp, / cavallino galoppa, / su tronchi e su pietre, / ma non romperti le gambe». Questa filastrocca era il primo exergo, poi sostituito con una citazione di Goethe, che Walter Benjamin, ben consapevole della pericolosa audacia dell’opera, aveva scelto per l’Introduzione del suo saggio sul dramma barocco tedesco. Non gli portò fortuna. Il saggio, presentato nel 1925 come Habilitationschrift all’Università di Francoforte, avrebbe dovuto aprirgli le porte dell’insegnamento universitario, ma venne rifiutato: una delle pagine più nere degli annali dell’università tedesca, dell’interminabile lotta tra intelligenza e burocrazia scientifica. Fu pubblicato solo nel 1928 ed è oggi considerato una delle opere più originali della riflessione filosofico-letteraria del Novecento.

Al lettore italiano, dopo la traduzione di Enrico Filippini (Einaudi, 1971) — a parere di molti imprecisa e troppo disinvolta — e quella di Flavio Cuniberto, molto più accurata (Einaudi, 1999), viene ora offerta una terza traduzione: Origine del dramma barocco tedesco, Nuova edizione italiana a cura di Alice Barale. Prefazione di Fabrizio Desideri (Carocci, pp. 460, € 43). L’impegno nei confronti dell’ardua e densissima scrittura benjaminiana appare già nella scelta del titolo, Origine del dramma barocco tedesco, invece dell’usuale Il dramma barocco tedesco, perché «origine» e «originario ascolto» sono teoricamente concetti decisivi. Sono state ripristinate le scelte editoriali a cui Benjamin teneva molto: i titoli dei diversi paragrafi e gli spazi tra questi ultimi. Il metaforico e «geroglifico» stile dell’opera è affrontato da Barale con mano sicura e i passi in cui si sono sciolte difficoltà importanti sono segnalati con una nota, in cui si indica il termine originale tedesco e in cui si rimanda ad altri contesti.

Nelle dense pagine introduttive Desideri e Barale ricostruiscono il contesto filosofico con cui Benjamin dialoga: Scholem, l’amico di Gerusalemme; Lukács, per «la decisione di morte nell’uomo tragico» in L’anima e le forme; Rosenzweig: «L’eroe tragico ha solo un linguaggio che gli si addice perfettamente: il tacere. […] Tacendo, l’eroe rompe i ponti che lo collegano a Dio e al mondo, e si innalza al di sopra delle regioni della personalità — che parlando si delimita e si individualizza rispetto alle altre — nella solitudine glaciale del sé». E ancora Warburg, per l’elaborazione micrologica del frammento, per lo sprofondamento nel dettaglio, e anche per il volto oscuro e demoniaco degli antichi dèi; e Panofsky, per la Melancolia I di Dürer; e Usener, che nei Nomi degli dèi, «ci dà modo di chiarire l’essenza dell’astrazione allegorica». Parallelamente i curatori ricostruiscono la complessa genesi dell’opera, che conosce diverse fasi, dall’ «eccentrica acribia», che porta a raccogliere seicento citazioni, alla teoresi che mette a punto i concetti chiave: la potenza delle «idee»; l’opposizione tragedia/Trauerspiel, che è il «dramma del lutto»; il rapporto tra «parola» e «concetto», tra «contenuto» e «logos»; il decadere del «contenuto materiale», da cui emerge il «contenuto di verità» di un’opera.

Nella sua seconda parte il volume ci presenta 140 pagine di Documenti, tradotti per la prima volta. È una serie di testi particolarmente importanti per la genesi e la comprensione dell’Origine del dramma barocco tedesco. Comprende — oltre alle carte relative alla mancata abilitazione, con l’ineffabile giudizio di Hans Cornelius, insediato sulla cattedra di Estetica: «il suo modo incomprensibile di esprimersi, che va senz’altro visto come il segno di una confusione a livello dei contenuti» — la prima stesura dell’Introduzione; i saggi giovanili, del 1916, “Trauerspiel” e tragedia e Il significato del linguaggio nel “Trauerspiel” e nella tragedia — dove emergono per la prima volta alcuni grandi temi: il tempo del Trauerspiel, che non è mitico, ma spettrale, il tema del lamento, e dell’ascolto del lamento, «perché soltanto il lamento profondamente percepito e ascoltato diventa musica» — ; le Postille, pensate per una eventuale seconda edizione dell’opera; un saggio del 1925 su Calderón e Hebbel, nella loro divergente messa in scena della figura di Erode. E anche le osservazioni sparse sono spesso stupefacenti, come questa, nelle Postille: «Cercare di ricondurre il tipo del tiranno, dell’intrigante ecc. ad Aristotele, attraverso i bestiari medievali. Fare riferimento alla zoologia di Aristotele».

Molto suggestiva è la discussione con l’amico Florian Christian Rang — il cui «spirito era attraversato dalla follia come un massiccio è solcato da forre», ricorderà Benjamin — di cui vengono riportate le lettere. Benjamin è colpito dalle riflessioni platoniche di Rang, dal suo interesse per le «idee», che collegano l’«assoluta unità dell’essere» e la molteplicità del reale. In una lettera del 9 dicembre 1923 gli scrive: «La tua fondamentale concezione mi ha veramente colpito. […] Il compito dell’interpretazione delle opere d’arte è questo: raccogliere la vita creaturale nell’idea». Un altro importante contributo di Rang — che influenza a fondo il capitolo Dramma barocco e tragedia — riguarda la teoria della tragedia, con l’idea di circolo che Rang introduce: circolo delle stelle e circolo del destino, che la tragedia greca, con l’agone che supera l’ordalia, ha la capacità di interrompere.

I Documenti si chiudono con due lettere a Hugo von Hofmannsthal — che aveva sostenuto la pubblicazione dell‘Origine del dramma barocco tedesco presso Rohwolt e aveva proposto a Benjamin di pubblicare sui «Neue deutsche Beiträge», la rivista da lui fondata, la parte sulla malinconia, come anticipazione del libro — del giugno e del dicembre 1925, e con una recensione al suo dramma La torre. Una lettera riguarda l’uso della metafora in Shakespeare e Calderón, l’altra lettera, di ben quattro pagine, risponde all’invito di Hofmannsthal perché scriva le sue impressioni su La torre. Sono pagine molto intense, strettamente connesse con il tema del Traurspiel e animate da un confronto con La vida es sueño: se in Calderón la decisione del sovrano di rinchiudere il figlio nella torre sin dalla nascita è legata al «diritto naturale e statale», in Hofmannsthal questo legame viene meno e «la violenza paterna e il martirio del principe sono chiamati per nome». E il Sigismondo della Torre è «creatura» in un senso molto più radicale del «cortigiano delle montagne» di Calderón, e in questo contesto rientra anche il motivo dell’organo, nella scena del terzo atto, perché «la musica ha sempre la funzione di far vibrare nel canto il suono lamentoso della voce umana, liberata dai vocaboli e dai significati».

Questi Documenti, di lunghezza e di tenore molto diversi, ci introducono in pieno nel «cantiere» del Trauerspiel, così come Benjamin lo va pensando, nelle sue misteriose e fascinose ambivalenze. Perché il Trauerspiel è sì «dramma del lutto», prigioniero com’è della «luce opaca di Saturno», ma non c’è nessun Trauerspiel «puro», perché lo stile, nel senso dell’unità dei sentimenti è una prerogativa della tragedia: «si alternano in esso i più diversi sentimenti del comico, del terribile, dell’orrore e molti altriı». Così, in Shakespeare, «la frangia colorata del comico: Calibano, Ariele, l’uomo-animale e lo spirito elementare».