«L’ufficio speciale Rom sinti e caminanti comunica che la Signoria Vostra dovrà liberare il modulo entro e non oltre il 6 settembre 2021». Recita così l’intimazione a lasciare il campo La Barbuta che il comune di Roma ha notificato il 5 e 6 agosto scorso ai venti nuclei familiari che ancora restano nei prefabbricati. Lo sgombero definitivo è l’obiettivo della sindaca Virginia Raggi, che ha già chiuso Camping River, Schiavonetti, Foro Italico, l’Area F di Castel Romano e La Monachina.

Quello situato alle porte di Ciampino è un insediamento nato nel 1992 per ospitare rom dell’ex Jugoslavia e sinti italiani provenienti da alcuni campi della capitale (via Scintu, via Vignali, via Rapolla, via Pelizzi, via Procaccini). Nel 2012 è diventato un «villaggio attrezzato», cioè una «baraccopoli istituzionale», per 550 persone.

A partire dal 2017 le presenze sono progressivamente diminuite. Le fuoriuscite sono avvenute principalmente in forma autonoma, le persone hanno raggiunto insediamenti informali con meno restrizioni oppure hanno ottenuto l’assegnazione di una casa popolare nelle normali graduatorie.

Da La Barbuta venivano i due nuclei che tra aprile e maggio 2019 entrarono nelle case che spettavano loro di diritto nel quartiere romano di Casal Bruciato, scatenando proteste e violenze di Casapound. Uno dei due, spaventato, tornò indietro.

In forma minore, altre famiglie hanno lasciato il campo con il «Patto di responsabilità solidale» proposto dal comune di Roma. Sulla questione abitativa prevede che i soggetti firmatari trovino una casa da prendere in affitto e siano poi sostenuti per due anni dall’istituzione pubblica. Un punto molto contestato.

«Nessuno affitta una casa a un rom senza lavoro. Quando dopo due anni l’aiuto del comune finisce chi può pagare a prezzo di mercato?», dice Riba, seduto a un tavolo in legno di fronte al suo prefabbricato composto da un ingresso con letto, una stanza molto piccola e un bagnetto. Dentro non c’è acqua, fuori ne scorre un filo e gli abitanti del campo la raccolgono lentamente all’interno di recipienti. Solo così possono cucinare, farsi la doccia o lavare i vestiti.

«Vogliamo uscire da qui, vogliamo il superamento dei campi rom. Ma il Patto del comune non poteva essere firmato da tutti: ci sono persone che attendono da anni l’apolidia o a cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno per motivi umanitari [cancellato per un periodo dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, ndr]. Qualcun altro, come me, non ha voluto firmare perché sapeva che a quelle condizioni era impossibile trovare una casa», continua.

La richiesta di Riba è che lo sgombero sia sospeso e si lavori per la regolarizzazione di tutte le persone presenti. L’associazione Cittadinanza e minoranze, che sostiene gli abitanti del campo, ha presentato un esposto al prefetto della capitale chiedendo di non praticare l’azione di forza e uno alla sindaca Raggi sostenendo che l’intimazione a lasciare gli alloggi partita dal comune è illegittima. Secondo i legali dell’associazione per un verso l’atto presenta gravi difetti procedurali, per l’altro non sono state individuate strutture abitative alternative per tutti.

Nedelco, su un marciapiede de La Barbuta – foto di Giansandro Merli

Circa la metà delle persone che risiedono a La Barbuta rischia di finire in mezzo a una strada tra pochi giorni. Sono preoccupati. «Ci hanno detto di uscire, ma da qua non me ne vado. Devono portarmi via», dice Nedelco. Ha 31 anni ed è sulla sedia a rotelle. Da sempre. È nato in Italia ma non ha i documenti. «Dove andrò? Sotto i ponti?», dice scuotendo la testa con amarezza.

È possibile che alla fine le persone vulnerabili ricevano qualche offerta di accoglienza, ma la divisione dei nuclei familiari è per molti una prospettiva insostenibile. Meglio la strada. È già successo negli altri sgomberi, che hanno fatto aumentare il numero degli insediamenti informali della capitale.