Nell’Europa della Restaurazione, tal David Brewster prese degli specchietti e qualche frammento di plastica colorata, li avvolse in un cartone e inventò un nuovo modo di guardare la realtà che prese il nome di caleidoscopio («guardare il bello»). Grazie alle simmetrie generate dagli specchi, si ottenevano visioni geometriche, più o meno complesse a seconda dell’oggetto guardato, osservando le mutazioni di colore e forma, senza mai ripetersi. Oggi il caleidoscopio può apparire come via di fuga alle correnti reazionarie che soffiavano nei primi anni dell’800, un buffo antenato degli effetti speciali o un passatempo canuto, come forse è stato accolto scioccamente, da qualcuno, l’annuncio di un nuovo album di Paul Simon, Stranger to Stranger, in uscita il 3 giugno (Concord/Universal.

Non è un caso che la copertina del disco elabori parte del volto di Simon in una miriade di cromatismi e sfumature quasi cubiste, tanto simili al gioco ottico di una volta, ma che rispecchiano la gioiosa complessità di un disco straordinario, probabilmente il migliore dai tempi di The Rhythm of the Saints. Proprio le percussioni primitive e spirituali di The Rhythm of the Saints sono la base di questo nuovo lavoro, anticipato ad aprile dal singolo Wristband che, con il consueto gusto per la narrazione grottesca, cela il disagio di una classe sociale («Se non hai il braccialetto amico mio/Non entri da questa porta») su un irresistibile tappeto percussivo jazz.

A cinque anni di distanza dal precedente So Beautiful or So What, Paul Simon sembra spingere ancora più in là i confini di una speciale forma-canzone da lui stesso ideata, a partire da Graceland, dove all’interno degli schemi codificati della tradizione melodica americana, vengono distillate le suggestioni più disparate di una Pangea musicale senza più confini né tempo. Stranger to Stranger infatti, oltre a farsi tentare ancora una volta dai più disparati e pagani esperimenti ritmici, che includono tamburi peruviani, richiami al Flamenco, quartetti gospel, fiati e sintetizzatori, annovera la presenza, addirittura, di alcuni strumenti come il Chromelodeon e la Marimba Eroica inventati da Harry Partch, compositore e teorico americano del Novecento che per primo fabbricò nuovi strumenti in grado di produrre intervalli microtonali.

Ma è la presenza dell’italiano Cristiano Crisci, in arte Clap!Clap!, a colpire maggiormente, un producer e artista toscano che giocando con i ritmi della world music ha conquistato Simon che, dopo averlo conosciuto a Milano, lo ha chiamato per collaborare al disco in tre canzoni (Street Angel, Wristband e The Werewolf). Il risultato sono dieci tracce ipnotiche, sospese fra la moltiplicazione delle linee melodiche e il canto limpido, quasi religioso di un Simon, immutato dai tempi di Garfunkel, che accarezza di gioia, ironia e introspezione urbana le sue armonie fino all’esile e fantasmatica traccia finale, Insomniac’s Lullaby («Signore, non farmi stare sveglio tutta la notte/A fianco della luna con i suoi occhi desolati/Lontanissimo dal sorgere del sole»), una preghiera cullata dagli strumenti di Partch che suona quasi come un commiato.

Qualche giorno fa infatti, il cantautore, poco dopo aver donato a Bernie Sanders la sua America per gli spot elettorali, ha dichiarato che probabilmente Stranger to Stranger sarà l’ultimo disco e, forse, quella virgola ambrata che quasi brilla, in copertina, come una lacrima sotto il suo occhio screziato, non è che un dolente saluto.