Il calcio popolare chiama, ora bisogna vedere se i padroni del pallone saranno in grado di rispondere. Diverse società del calcio di base hanno consegnato questa mattina al presidente della Figc Gabriele Gravina una petizione per chiedere la drastica riduzione dei costi d’iscrizione ai prossimi campionati dilettantistici, e in generale dei costi vivi di produzione per le prossime stagioni, altrimenti rischiano di scomparire. «Chiediamo un abbattimento dei costi di iscrizione e di tutte le voci che riguardano l’affitto dei campi, la tutela della salute e di tutto il resto, perché venga finalmente compreso e riconosciuto il ruolo sociale che il calcio e lo sport di base svolgono in questo paese. Una domanda impellente, che può essere riassunta nel nostro hashtag #bastaprofitto», dice Andreia Incorvaia della Fc Rinascita di Pisa, una delle squadre promotrici dell’appello scritto il mese scorso con Lokomotiv (Valdinievole), Trebesto (Lucca) e Spartak Apuane (Massa). E poi firmato da molteplici realtà sparse su tutta la penisola: Atletico San Lorenzo (Roma), St Ambroeus (Milano), Spartak Lecce, Stella Rossa (Brescia), Liberi Nantes (Roma), San Precario (Padova) e moltissime altre.

Oltre alla mera sopravvivenza delle squadre del calcio popolare, già di per sé fondamentale per il lavoro di cura e solidarietà che queste società svolgono sul territorio – nessun fine di lucro, azionariato diffuso, lavoro nei quartieri, solidarietà, condivisione, tifoseria parte integrante del progetto – questo appello offre la possibilità di ripensare radicalmente lo sport per come è inteso nel nostro paese. Molte di queste società sono infatti polisportive, partecipano anche a tornei di basket, pallavolo, cricket, e hanno diversi livelli di squadre giovanili per i più piccoli. Se si riconosce allo sport una funzione sociale, al di là della retorica, non si può pensare che lo sport di base sopravviva solo grazie alla beneficenza ma deve essere sostenuto in ogni sua forma.

Se la trickle down economy per cui meglio mangiano i ricchi più mangiano anche i poveri è la grande truffa del capitale, il grande inganno del pallone è racchiuso in una parola: mutualità. La Serie A deve ripartire per aiutare il calcio minore, si è sentito ripetere dappertutto. Da sempre infatti è stato dato per scontato, ed è stato poi ratificato da ogni legge riguardante il pallone, da ultima la legge Melandri a sua volta già emendata, che il calcio minore può e deve esistere solo grazie alle briciole che cadono dall’alto. Puro trickle down. In pratica le 9.237 società dilettantistiche sparse per il paese (dati riferiti alla stagione 2017-18, come da ultimo report Figc) possono e devono sopravvivere solo grazie alla beneficienza delle 99 società professionistiche. O meglio, delle 20 società di Serie A, che elargiscono al resto del pallone – Serie B e C comprese – circa 150 milioni l’anno. O ancora meglio, visto che in Italia solo di diritti tv si campa – e per di più distribuiti iniquamente, se in Inghilterra la prima in classifica prende una volta e mezza l’ultima qui la prima prende oltre dieci volte tanto l’ultima – e la mutualità dipende quasi esclusivamente dagli introiti televisivi, alla fine si sopravvive grazie a quelle tre o quattro società che dominano il campionato di Serie A.

Ricapitolando, le quasi diecimila società di calcio non professionistico dipendono da “contributi, offerte, donazioni, lasciti testamentari e liberalità” per il 54% dei ricavi totali. E per il resto dalla mancia televisiva che lascia loro Cristiano Ronaldo, che sicuramente è generoso ma che non può e non deve mantenere un intero sistema. Soprattutto nel post pandemia quando è chiaro che le generose offerte diminuiranno drasticamente, al di là dei 21 milioni (5 ai dilettanti) del Fondo Salva Calcio. In questi ultimi anni alla mutualità di cui sopra il calcio popolare ha opposto il mutualismo, ovvero un modo di ripensare la pratica sportiva all’insegna della cooperazione e della solidarietà, che dovrebbe essere il principio base dello sport, in campo e fuori.

Dovrebbe, perché anche nel calcio figlio di un dio minore non tutto luccica, povero non è bello, e la maggior parte delle società di calcio dilettantistiche servono per scopi politici, affaristici o criminali, hanno una funzione di controllo del territorio più che di ruolo sociale nel territorio. Per questo, la questione non è tanto quella di fare sconti o di aumentare le entrate per il calcio dilettantistico in sé e per sé, soldi che andrebbero ai soliti noti per i soliti scopi, ma di valorizzare un modo diverso di approcciarsi allo sport, senza fine di lucro. Se lo sport è salute – così si chiama l’azienda pubblica del ministero che dallo scorso anno gestisce il grosso dei soldi del Coni – più che rivendicare una fetta più grossa delle briciole per il calcio dilettantistico qui si tratta di ripensare la funzione sociale e soprattutto sanitaria che deve avere lo sport sul territorio. Non di “tornare a”, non esistono “i bei tempi in cui”. Occorre proprio immaginare qualcosa di nuovo.

E questa domanda di cambiamento può venire solo dalle pratiche quotidiane messe in atto dallo sport popolare, in cui solidarietà e condivisione si contrappongono al profitto, il mutualismo alla mutualità. L’appello è stato consegnato, la domanda è stata fatta, se lo sport ha davvero qualcosa a che fare con la salute ora sta ai padroni del pallone e dello sport italiano rispondere. E scegliere una volta per tutte da che parte stare.