Scriveva Aimé Césaire che il maschio bianco occidentale umanista, se si mettesse a studiare per bene la genesi e il progredire del nazismo, scoprirebbe che anche lui porta dentro di sé un Hitler nascosto. Mario Balotelli ha questo dono e questa funzione, rivelarci il rimosso hitleriano di questa società.

 

Toni Iwobi

Suo malgrado, lui vorrebbe solo giocare a pallone. Ma a lui non è permesso. Lo potrebbe fare solo se facesse vincere la sua squadra in campo, come spesso fa, e poi scomparisse, senza avere una vita né pubblica né privata, senza una macchina di grossa cilindrata, una fidanzata famosa, una camicia bianca e un orologio d’oro, come tutti gli altri calciatori. No, a lui non è permesso. Figuriamoci se gli è consentito parlare. E così basta che lui commenti le recenti elezioni come un ragazzo italiano qualsiasi, senza diritto di voto ovviamente, che l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non avere lo ius soli, che si scatena l’inferno. Come osa lui, il nero. Perché in fondo è questo e solo questo che a lui non è mai perdonato. Martedì sera Balotelli pubblica una story su Instagram. Sotto una foto di Matteo Salvini e Toni Iwobi, responsabile Immigrazione della Lega e da qualche giorno primo Senatore della Repubblica Italiana nero, ha scritto: «Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!!!».

Un paese civile, che non ha bisogno di imporsi un linguaggio politically correct per mantenere nascosto il suo passato colonialista, ne avrebbe approfittato per aprire una discussione sulla figura dell’house negro, antico termine riferito al nero che durante la schiavitù sottomette i compagni per compiacere il padrone, un po’ come il kapo descritto da Primo Levi. Una figura che Malcolm X politicizza nella critica sociale e Quentin Tarantino rende epica nella figura del maggiordomo interpretato da Samuel L. Jackson in Django Unchained. E invece no, parte il linciaggio contro il calciatore. Non solo la prevedibile risposta di Matteo Salvini, che su Twitter scrive: «Balotelli, non mi piaceva in campo, mi piace ancor meno fuori dal campo». O dello stesso Toni Iwobi, che a Radio Capital ha detto: «Balotelli? Preferisco ignorarlo, in questo momento. Non m’interessa quello che scrive, ne ho abbastanza delle polemiche: voglio pensare al mio territorio e al nuovo compito che mi hanno affidato. Lui è un grande giocatore e rimarrà tale, spero che si limiti a fare il suo bel lavoro, visto che è portato a farlo. Io ho due squadre del cuore: l’Atalanta e l’Inter. Se Balotelli giocasse nella mia squadra del cuore, certo tiferei per lui. Quando è andato al Milan ci sono rimasto male, visto che sono interista. La Lega razzista? Non lo è, lo dite voi».

Il problema è che Balotelli, una vita passata a rispondere ai cori da scimmia, alle banane sventolate, agli insulti urlati in ogni stadio d’Italia e d’Europa, da ultimo il mese scorso con la maglia del Nizza sul campo del Digione, ha tirato fuori nuovamente l’Hitler rimosso dentro di noi. Oltre ai prevedibili improperi vomitati sui social dalla parte più razzista del paese, è stato attaccato da quella élite che sulla stampa progressista l’ha sempre trattato con condiscendenza. E da quella sinistra che non gli ha mai perdonato il suo essere quello che voleva lui e non il nero addomesticato che vorrebbero loro, con il pugno chiuso all’ingresso in campo o la maglia dei Public Enemy nel tempo libero. Proprio questo è il colonialismo rimosso dell’uomo bianco occidentale umanista: non accettare l’alterità se non è conforme alle proprie aspettative. E Balotelli ce lo ha ricordato una volta di più.