La lega del basket che ha deciso di non fermarsi nel giorno della morte di Bryant, è una miscela di sport e spettacolo che produce tifosi e guadagni ogni anno. Oltre un miliardo di dollari di ricavi nell’ultima stagione, la Nba entro il decennio diventerà il campionato più ricco del mondo, staccando la National Football League e anche la Premier League, il campionato inglese, che osserva e prova a riproporre le sue leggi non scritte nel Regno Unito. Cina (nonostante il caso diplomatico apertosi in autunno per le posizioni di un manager di una squadra a favore dell’indipendenza di Hong Kong da Pechino), India, Sudamerica, Australia, Europa: un successo globale, un prodotto di altissima qualità, ci sono un altro miliardo di dollari che entreranno nelle tasche della Nba, assegni in arrivo da sponsor come Gatorade, Coca Cola, Tissot, Kia, Uber, McDonald’s.

L’APPEAL della Lega è ovviamente fortissimo sui social: secondo KPMG Benchmark, è la seconda al mondo (119 milioni di seguaci, tra Facebook, Twitter e Instagram), alle spalle della Champions League (141 milioni di contatti), davanti alla Premier League, con 95 milioni di contatti. Senza dimenticare gli incredibili numeri dell’edizione 2017/2018, con introiti per quasi sette miliardi di euro per le 30 franchigie (ma dietro alla National Football League con 11,6 mld e la Major League Baseball, 8,9 mld) e il balzo medio del 22% del valore delle singole società (studio di Forbes), un valore che si è decuplicato negli ultimi anni. Una rivoluzione, perché 30 anni fa la Nba era in crisi. Senza stelle, con un’immagine poco pulita per l’uso di sostanze stupefacenti da parte di tanti atleti. Non produceva ricchezza e si trovava nell’imbarazzante posizione di dover pagare pur di finire sulle tv nazionali.

PRIMA della nascita del dualismo tra Magic Johnson e Larry Bird, tra i Los Angeles Lakers e i Boston Celtics, che ha riportato i fan nei palazzetti dello sport, con un occhiolino alle multinazionali. E poi c’è stata l’era di Michael Jordan, dell’uomo che volava a canestro con la lingua in fuori, il plot di uno degli spot più famosi della Nike, regia di Spike Lee. E nel boom della Nba c’è il contributo decisivo proprio di Kobe Bryant, l’erede designato da Michael Jordan – ovvero la figura barometro nella storia del basket mondiale -, forse il punto d’incontro con il nuovo millennio, con la globalizzazione, l’apertura ai campioni da altri continenti e la Rete che rende senza tempo un tiro, una stoppata, un passaggio decisivo. Una stella universale, che appartiene a tutti, al punto che giocatori e tifosi chiedono in queste ore, attraverso una petizione in rete, che la stella dei Lakers morta due giorni fa diventi il volto della Lega, prendendo il posto all’interno del logo di un altro totem, Jerry West. Insomma un faro della Lega, che ha ceduto il testimone alla stella dell’ultimo decennio, ovvero Lebron James, che tre notti fa ha superato proprio Kobe Bryant al terzo posto nella classifica dei migliori marcatori di sempre.

MA OLTRE lo show business (che resta al primo posto delle priorità per l’Nba), la lega del basket negli anni è divenuta anche megafono di istanze civili, associandosi, per esempio, al coro delle proteste contro le violenze alla comunità degli afroamericani, tre anni fa, ingaggiando spesso una guerra dialettica con l’amministrazione di Donald Trump. Anzi, le sue stelle più incisive, come James, come Steph Curry, si sono espressamente schierate contro il presidente. Una parola decisiva, mediatica, visibile a tutti, contro il razzismo, l’intolleranza. Spesso assente in altri contesti, come il calcio europeo.