La migrazione invisibile dei rifiuti nasce negli impianti di raccolta e smistamento nel centro-sud e finisce in discariche e termovalorizzatori del nord Italia, del nord e dell’est Europa. «Autorizziamo tra le 40 e le 50 spedizioni all’anno verso l’estero», dice un funzionario della Regione Campania. Ognuna di queste vuol dire migliaia di tonnellate di scorie che attraversano il Mediterraneo su navi portacontainer, dirette in Bulgaria o in Portogallo. Attorno a questo business da centinaia di milioni di euro ruotano centri di riciclaggio, imprese di trasporti, compagnie marittime, intermediari e destinatari finali. Non da ultimo, camorristi e ’ndranghetisti.

ALLA BASE C’È LA DECISIONE della Regione di esportare al nord o all’estero la spazzatura per risolvere l’emergenza a Napoli dei primi anni 2000 e far fronte alla carenza di impianti. Secondo i dati dell’Ispra, la Campania è la regione italiana che esporta più rifiuti: 415 mila tonnellate nel 2021, inviate in altre regioni italiane o nel resto del mondo. Per anni, la meta principale è stata la Cina, ma nel 2018 il paese ha deciso di chiudere le frontiere all’immondizia europea e i rifiuti hanno finito per inondare tutto il bacino euromediterraneo. In Portogallo, dove è finita una parte delle ecoballe accatastate a Giugliano durante l’emergenza rifiuti del 2007, ci sono state varie proteste nei luoghi di destinazione dei carichi. All’inizio di febbraio del 2020 i muri di Sobrado, nel nord del paese, sono stati tappezzati di manifesti con scritto «Sobrado vuole respirare, chiudi la discarica». Gli eurodeputati del Bloco de esquerda hanno presentato un’interrogazione alla Commissione europea e il ministro dell’ambiente João Pedro Matos Fernandes ha annunciato più controlli e una stretta sugli arrivi che ha portato alla sospensione, da parte della regione Campania, di un carico in partenza.

ALLA FINE DI GENNAIO DEL 2020, nel porto di Varna, in Bulgaria, sono state sequestrate 3.700 tonnellate di rifiuti inviati dall’azienda irpina Dentice Pantaleone alla Blatsiov di Sofia. La spedizione doveva contenere solo plastica e gomma, ma c’erano vetro, tessuti e componenti elettronici. Le autorità bulgare hanno rimandato tutto al porto di Salerno, il governo di Sofia ha sospeso la licenza all’inceneritore che avrebbe dovuto smaltirli e la vicenda ha provocato l’arresto e le dimissioni del ministro dell’ambiente Neno Dimov.

NEL LUGLIO 2020, E’ ESPLOSO il caso dei 282 container inviati, in quattro spedizioni, in Tunisia. Il primo carico da 70 tonnellate ha superato il controllo doganale nel porto di Sousse ed è stato portato in un deposito a Moureddine, a una decina di chilometri di distanza. Gli altri tre sono stati invece fermati perché il contenuto non coincideva con quello che dichiaravano i documenti forniti dalle società coinvolte, la Servizi risorse ambientali e la tunisina Soreplast, e con le autorizzazioni della Regione Campania. Dopo quasi due anni, un’inchiesta giudiziaria e l’arresto di 11 persone tra le quali il ministro dell’Ambiente Mustapha Laroui, la Campania è stata costretta a riprenderseli e la settimana scorsa 213 container sono sbarcati nel porto di Salerno, dove sono stati sequestrati dalla magistratura. Mancavano i 70 della prima spedizione, bruciati in maniera misteriosa il giorno dopo l’accordo tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il presidente tunisino Kais Saied, alla fine di dicembre. Ora i rifiuti saranno parcheggiati nell’area militare di Persano, dove per 15 anni sono state già parcheggiate 90 mila tonnellate di ecoballe dell’emergenza del 2008, in attesa che si trovi un impianto disposto a smaltirli. Per Legambiente, questo caso rivela il fallimento della gestione del ciclo dei rifiuti in Campania.

STANDO ALLE INDISCREZIONI, GLI SCARTI dello scandalo italo-tunisino, tutti provenienti dalla raccolta differenziata di 16 comuni del salernitano, potrebbero finire in un inceneritore veneto. Non sarebbe una novità, perché il nord Italia è un importatore di rifiuti meridionali. Secondo lo studio «Rifiuti urbani, fabbisogni impiantistici attuali e al 2035», realizzato da Utilitalia (la Federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche), su 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, nel 2019 circa 2,8 milioni sono state trattate in regioni diverse da quelle di produzione e il nord ha importato 2 milioni di tonnellate dal Centro-Sud, il 14 per cento della produzione dei rifiuti di tutto il settentrione. Il centro Italia, in particolare il Lazio dove spicca l’emergenza rifiuti romana, non è da meno: esporta il 17 per cento (1,5 milioni di tonnellate) della propria produzione di rifiuti.

«LA CARENZA E LA CATTIVA DISLOCAZIONE degli impianti è la prima causa dei viaggi dei rifiuti lungo la Penisola, con importanti costi in termini economici e ambientali. Per trasportare i 2,8 milioni di tonnellate di rifiuti trattati in regioni diverse da quelle di produzione, nel 2019 sono stati necessari 108 mila viaggi di camion, pari a 62 milioni di chilometri percorsi: ciò ha comportato l’emissione aggiuntiva di 40 mila tonnellate di CO2 e 75 milioni di euro in più sulla Tari (il 90 per cento dei quali a carico delle regioni del centro-sud)», scrive Utilitalia nel rapporto.

SECONDO IL VICEPRESIDENTE Filippo Brandolini, «il paradosso è che i cittadini dei territori nei quali non ci sono sufficienti impianti sono costretti a pagare le tariffe dei rifiuti più alte e hanno una qualità ambientale più bassa». C’è poi il costo delle infrazioni. Solo nel 2018, l’Italia ha pagato ben 70 milioni di euro per le multe inflitte dall’Unione europea per le inadempienze nella gestione dei rifiuti.
Le soluzioni proposte, dai biodigestori ai termovalorizzatori per produrre metano ed elettricità dai rifiuti bruciati, sono però contestate dagli ambientalisti e dalle comunità locali. La stessa Regione Campania ha bloccato negli scorsi giorni la proposta di un impianto a Caserta perché «manca la stima delle emissioni in atmosfera di inquinanti, di quelle connesse al traffico veicolare indotto, mancano informazioni in merito alle distanze dell’impianto di abitazioni, centri commerciali, altre attività industriali e attività sociali, manca una valutazione degli eventuali impatti cumulativi con le altre industrie poste all’intorno dell’area, non vengono fornite indicazioni sullo stoccaggio di reflui e non vengono fornite indicazioni in merito alla produzione del percolato».