C’è qualcosa di stridente nel nuovo film di Antonio Capuano attraversato dall’emozione di un’empatia e al tempo stesso da «forzature» della necessità di far quadrare l’incontro tra il presente e il passato che si agita nelle vicende dei suoi personaggi, quel cortocircuito di storia collettiva e vita del singolo che vi partecipa «suo malgrado» per esserne molto spesso travolta. La vita in questione è quella di Maria Serra che si presenta parlando in macchina dopo che non l’hanno voluta per un posto di spazzina – troppo bella o troppo lenta o chissà. Abita Torre del Greco, «periferia» espansa di Napoli, insieme alla madre che non parla più e cucina per un ristorante della zona: impasta impasta impasta, lo dice in dialetto veloce Maria (Teresa Saponangelo), che è disoccupata e insegna in una scuola del quartiere ma gratuitamente – al concorso fa punti.
Maria è sola, non ha un amore, non ha amici a parte Titti (Daria D’Antonio) stralunata e stravagante col suo accento emiliano. La corteggia Fabio (Francesco Di Leva) che insegna teatro ai ragazzi del quartiere provando a fargli mettere in scena Peppe Lanzetta invece di un talent, e un carabiniere che conosce denunciando uno scippo, La ossessiona il figlio ragazzino del boss di camorra ammazzato in galera che di quella «cultura» porta già in sé l’arroganza violenta.

MA CHI È DAVVERO Maria, sempre rabbiosa, che balla da sola davanti allo specchio? Un’orfana prima che nascesse, il padre, giovane poliziotto è stato ucciso in una manifestazione negli anni Settanta, e quella figura mai conosciuta è divenuta Il buco in testa della suo essere. È dunque a questa nostra storia che guarda Capuano, un rimosso pesante e mai affrontato – come ha dimostrato la brutta retorica sui recenti arresti a Parigi di alcuni ex -Br – che neppure l’immaginario nostrano riesce a elaborare: nel cinema italiano, quando si parla di terrorismo e lotta armata – o più genericamente del decennio dei 70-80 – si finisce spesso nello stereotipo o in un’autocensura tra equilibrismi maldestri.

Capuano però lo affronta muovendosi sui bordi, come è la cifra del suo cinema, a partire dalla messinscena di un personaggio, quello di Maria, ispirato (liberamente si puntualizza nel materiale stampa) a Antonia Custra, figlia del poliziotto Antonio Custra morto appunto durante gli scontri a Milano, nel 1977, in una manifestazione contro l’arresto di due avvocati di Soccorso Rosso. Antonia che non c’è più, è morta a 40 anni nel 2017, era cresciuta «nell’odio» – come raccontava lei stessa – ma infine aveva deciso di incontrare colui che aveva sparato al padre Mario Ferrandi – condannato per l’omicidio, poi «pentito», per qualcuno degli ex-compagni di allora politicamente ambiguo ancora adesso.

È ATTRAVERSO di lei, divenuta Maria, che Capuano compone i frammenti di questa memoria sin troppo codificata e insieme confusa, nel suo dolore, nelle sue solitudini, nel vuoto di una crescita condizionata da un fantasma amletico straripante che le ha negato persino la ribellione: come si fa a entrare in conflitto con un padre che non c’è, che si può solo amare nel rimpianto di un incontro non vissuto? Maria si fa archetipo di un femminile fuori dal tempo – costruito su Teresa Saponangelo, mai vista così intensa – che esprime epoche, passato e presente , nella sua fisicità di dolore e di negazione del desiderio, schiacciata da sé, da quella memoria pesante e da ciò che ha intorno, quel paesaggio tra il Vesuvio e il mare soffocato dalla camorra che attraversa coi suoi stivaletti. E se la sua presenza concentra tanta realtà italiana, quel «vuoto» – il suo buco in testa ci dice ugualmente come il passato di Maria manchi di una narrazione, quasi che il tabù – che l’ha circondata sia quello di una intera comunità.
E anche nella parte più rischiosa, l’incontro tra Maria e Guido, l’uomo che ha ucciso il padre (Tommaso Ragno), Capuano sa trovare il suo spazio, sposta l’ascolto da una parte all’altra, nell’eco di quegli anni e delle loro ragioni contraddittorie, forse oggi persino assurde, perché solo in questo modo una pacificazione è possibile. Nelle sue ellissi o nell’eccesso (talvolta) di motivazioni della scrittura (sceneggiatura di Capuano), il film conquista una forma libera, contrastando col suo sforzo la «pigrizia» di un Paese a affrontare la propria storia. Come prova a fare Maria (e il regista con lei).