Completamente riabilitato nel mainstream dal successo critico e commerciale di Il lato positivo (Silver Linings Playbook), David O. Russell torna felicemente nella dimensione più congeniale al suo cinema, un mondo sopra le righe, in bilico continuo su una vertiginosa voragine d’isteria. Depressa in Flirting With Disaster, quell’isteria era diventata quasi autistica in I Heart Huckabees. É invece gioiosa in American Hustle (in sala in Italia dal 1 gennaio 2014), un film che combina la passione per la truffa di David Mamet, il gusto pop per il pianeta del crimine di Scorsese e la commedia classica hollywoodiana alla Preston Sturges – il tutto in un delirio di pettinature bouffant, abiti di Diane Von Furstenberg e Alston, su greatest hits di Elton John, Donna Summer e Bee Gees.

Russell affida alla prima scena del film – Christian Bale venti chili più pesante che si incolla un orribile, elaboratissimo toupé sulla pelata vistosa- la sua dichiarazione di programma: vivere è camouflage, una truffa continua.

In realtà il verbo truffare non rende completa giustizia all’inglese to hustle, che arricchisce la pratica dell’imbroglio (oltre che di sfumature onomatopeiche che evocano un certo brivido del rischio) di una connotazione quasi esistenziale.

Per Irvin Rosenfeld (Bale), in effetti, hustling è uno stile di vita, con cui incrementa i proventi dalla sua catena di lavanderie suburbane. Per la moglie Jennifer (Jennifer Lawrence, fenomenale casalinga erotica e folle) l’unica tecnica di sopravvivenza. Sydney (Amy Adams) lo fa per amore. L’agente Fbi Richie DiMaso (Bradley Cooper, che si fa i riccioli con i bigodini rosa confetto) per manie di grandezza e il sindaco del New Jersey Carmine Polito (Jeremy Renner, con un ciuffo più alto di lui) a fin di bene. Il quadretto è assurdo almeno come il fatto reale che lo ha ispirato: una famosa inchiesta degli anni settanta in cui l’Fbi ricattò un piccolo furfante di Long Island costringendolo ad aiutarli a incastrare dei politici con l’aiuto di due finti sceicchi, impersonati da agenti del Federal Bureau, che millantavano di voler investire nei casinò di Atlantic City. L’operazione, grazie alla quale vennero condannati per corruzione un senatore e sei deputati, si chiamava Abscam – una contrazione di Arab Scam, ovvero la truffa araba.

Irvin non ha in mente niente di così ambizioso quando incontra Sydney durante un party invernale nella piscina coperta di una casa di Long Island (pensare alle feste di Boogie Nights in versione suburban , senza porno star e senza abbronzature). Lei indossa un bikini bianco fatto all’uncinetto, lui è grasso e bruttissimo ma meravigliosamente sicuro di sé. Li accomunano l’amore per Duke Ellington e, si scopre presto,una passione quasi erotica per il vivere pericolosamente. In breve fanno l’amore sul retro della tintoria (in un vortice di abiti lavati a secco – la scena starebbe bene in un musical con Gene Kelly) e lei, trasformatasi in un’artistocratica inglese «che ha contatti con le banche», lo aiuta ad adescare dei poveri allocchi pronti a sborsare 5000 dollari per un prestito che non arriverà mai. Unico neo della loro relazione, è Jennifer – l’impossibile moglie da cui Irving ha una dipendenza sessuale di cui si vergogna moltissimo. Lei, filosofa, annusandosi lo smalto per le unghie spiega il fenomeno cosi’: «É irrestistibile come quei profumi in cui però si sente anche una traccia di marcio». Lui la definisce «il Picasso del karatè passivo/aggressivo». Nella geniale interpretazione di Lawrence, Jennifer è una versione lisergica, terrorizzante della Judy Holliday di Nata ieri (Born Yesterday).

Il triangolo si complica quando la macchina truffaldina di Irvin e Sydney incappa nell’agente federale Richie Dimaso, e la posta diventa improvvisamente più alta. Dimaso, che vive con la mamma ed è febbrilmente divorato dall’ambizione, li coinvolge infatti – affittando costose suite al Plaza con orrore del suo capo Louis CK- in una trappola grandiosa in cui vorrebbe far cadere, oltre al benintenzionato sindaco populista di Camden e una serie di politici washingtoniani, anche un feroce mafioso di Miami interpretatato da Robert De Niro. Il finto sceicco prodotto dall’Fbi in realtà non è arabo, bensì ispanico – però non importa.

A confronto con il crimine white collar, quello operato a Wall Street, che sarebbe emerso (anche al cinema) negli anni ottanta per culminare ai nostri giorni con Bernie Madoff e le banche multinazionali, il microcosmo a delinquere di American Hustle è non solo piacevomente pittoresco, ma quasi rassicurante. Dotato anche dell’immancabile scena disco (Sydney che seduce il poliziotto come una Cyd Charisse di Saturday Night Live) siamo un incrocio tra la comedia criminale alla Married to the Mob e un musical.

Autore meno stilisticamente connotato di altri registi della sua generazione (per esempio gli Anderson, Paul Thomas e Wes), O. Russell è interessante per la sua profonda, reale, fascinazione verso le patologie estreme che affida ai suoi personaggi (il suo primo film, Spanking The Monkey, includeva un incesto tra madre e figlio). Come molta della produzione indipendente americana contemporanea, il suo è un cinema che privilegia gli attori – standogli quasi addosso con l’obbiettivo – rispetto alla forma. E, se American Hustle ha un gusto per l’umanità e l’intrigo della commedia che ricorda quello di Sturges, gli/ci manca l’asciuttezza anche filosofica del regista di The Palm Beach Story. Però questo è un film intelligente, generoso, sexy e molto divertente. Per dirla con Jennifer, irresistibile «come quei profumi in cui si sente anche una traccia di marcio».