«E’ l’esistenza dell’essere (finito) che dà un significato al non essere (infinito)»: affermazione ricca di implicazioni dell’aforisma n. 130, uno dei 149 elaborati da Luigi Blasucci (1924-2021) e ordinati sotto il titolo Pensieri ai quattro venti a cura di Giuliana Petrucci (Edizioni ETS, pp. 64, € 10,00). Sgorga dallo studio che il grande critico svolse senza sosta sulla «poesia pensante» di Giacomo Leopardi. Negli anni ultimi – la prima data che s’incontra è il Capodanno 1987, la terminale il 31 luglio 2013 – Blasucci di tanto in tanto scriveva in un’agenda o in foglietti sparsi condensate riflessioni e dava loro un numero, progettandone forse la pubblicazione. Attribuire a queste divagazioni l’etichetta «Pensieri» derivò da quella, identica, usata dal sommo recanatese per il libricino composto a Napoli e rimasto inedito fino al 1845. Per Gino – affettuoso nomignolo usato dagli amici – Leopardi fu l’autore per eccellenza di un incessante lavoro, e probabilmente per sfuggire a una sproporzionata coincidenza aggiunse il toponimo di una frequentata località dei dintorni di Pisa o per rimarcare ondeggiamenti e contraddizioni di massime che non pretendevano una scultorea solennità.

In questo esile lascito vibra qualcosa di testamentario. Spuntano qua e là riprese di temi approfonditi in pagine della sua bibliografia. Osservazioni sul mutamento dei costumi si alternano a convinzioni etiche, impressioni diaristiche seguono a evocazioni di salde amicizie. Sicché val la pena centellinare i contenuti di questo succinto breviario in controluce, non dimenticando che si tratta di un variegato divertissement ironico e serioso, leggero e meditato. Non mancano passaggi enigmatici, soprattutto quando si tratta di persone chiamate per nome con cognome puntato. E fitti sono rapidi brani che si accendono e rimangono incombusti, avvii di ragionamenti da proseguire.

Un gruppo non esiguo si riferisce a legami maturati e coltivati nell’ambiente pisano. Blasucci, giovane promettente in provenienza da Altamura, fu individuato subito con entusiasmo da Giorgio Pasquali alla prova di ammissione in Normale, a Pisa si laureò con una tesi su Dante, vi insegnò nelle scuole secondarie e infine nella Scuola che era stata sempre in cima ai suoi progetti. Nel rendere omaggio ai suoi maestri, diretti o indiretti, non cade in smancerie o patetismi. E fa tre nomi: Luigi Russo, Mario Fubini, Gianfranco Contini. Dal primo apprende il «senso della storicità» e il «piglio critico definitorio» – riconobbe in un’intervista concessa ad Alberto Saibene; dal secondo la modulazione della metrica e la dimensione stilistica; con Contini ebbe un rapporto dialettico tra alti e bassi mai placato. «Contini – scrive – esige che tutte le espressioni che adopera siano in sé originali, laddove un altro saggista, anche bravo, alterna i momenti dell’originalità verbale con quelli del discorso comune, fidando nel fatto che anche questi ultimi appariranno originali nel nuovo contesto (vedi ad esempio il Montale critico)».

Gino cercava «una scrittura limpida e comunicativa». La sua lezione era un incanto, un lento viaggio dentro un testo esaminato da ogni lato affinché se ne potesse cogliere ogni sfaccettatura o imitazione o eco o assonanza. Aveva un orecchio da direttore d’orchestra e recitava a memoria migliaia di versi, pronunciandoli con tonalità e ritmi pertinenti allo spartito. Avrebbe potuto per sé ripetere quanto disse proprio di Contini, committente della sua operazione-capolavoro, il commento ai Canti leopardiani affidatogli all’inizio degli anni ottanta e concluso giusto prima della morte: «…amava la letteratura, d’un amore vitale prima ancora che professionale». Chi è stato testimone degli anni pisani tra il 1954 e il 1959 e oltre non potrà far a meno di riconoscere le tracce di dispute interminabili. I pranzetti alla Rosticceria Fiorentina di Corso Italia erano un rito. Al desco Gino sedeva al centro. Lo attorniavano tra gli altri Cesare Cases, che insegnava il tedesco in una secondaria, Carlo Ripa di Meana, Nino e Sabino Cassese. Giusto al momento del caffè giungeva Sebastiano Timpanaro, che aveva desinato a casa sua con la madre Maria Cardini, grecista di fama. «Sempre giovane e uguale a se stesso» lo tratteggerà Cases in Immagini e ricordi.

Leopardi e Manzoni erano discussi accanitamente al pari di capitani di squadre rivali: Leopardi illuminista e classicista vs. Manzoni moderato e romantico. Ripensando a quegli scontri viziati di ideologismi settari, Blasucci annota che «a guardar bene, Manzoni è ancora più pessimista di Leopardi. Senza la presenza del suo Dio, la vita sarebbe per lui ancor più intollerabile: «Nel suo doloroso materialismo Leopardi ammette la bellezza delle illusioni; Manzoni le considera deviazioni». I confronti spesso continuavano la sera alla Libreria Feltrinelli, la prima aperta fuori Milano, diretta da Ripa di Meana con aristocratica flemma. Gino assisteva col suo distaccato sorriso e cercava punti di mediazione. Difendeva Fellini e Rossellini controbattendo agli attacchi dei lukácsiani di ferro. Quando lodò le bianche carni di Anitona nella Dolce vita si prese del dannunziano.

In politica il suo militantismo non oltrepassava mai le buone maniere: «Dilemma della politica. Temperare con realismo principi ideali; temperare con umanità principi realistici. Scelgo la prima via». In più di un appunto compare Jack, Giuseppe Giordani, un pediatra che era anche un estroso goliardico teatrante («Che Jack si trovi ora tra quelli ‘di là dal muro’ è cosa di cui non riesco a capacitarmi»). Di fronte alla morte Gino Blasucci non sa trattenere un moto di commossa incredulità. Così per Paci (Umberto Carpi): «Lo scandalo è sempre quello: come tanta coscienza possa finire in cenere» o alla scomparsa di Grazia Gimmelli e di Lucio Felici, presenze indelebili della sua eletta brigata. Alcune massime sono precedute dalla dizione «teologia abusiva». Ne estraggo una: «Si può avere un animo religioso senza essere credenti; e viceversa…». Il figlio Pietro e la moglie Marcella Binchi non scordano l’accentuarsi della religiosità di Gino all’«appressamento della morte», sulla soglia del misterioso conflitto tra il finito sensibile e l’infinito della smarrita finzione: «O dolci studi o care muse, addio».