«Poeta senz’opera, eliminato dalla sua stessa poesia, suicida canto per canto, una gola strozzata da parole troppo esigenti». Così si definiva Armand Robin (1912-’61) nel ciclo di frammenti che appaiono in L’indesiderabile La falsa parola e altri scritti (pp. 152, € 18,00), pubblicato da Giometti & Antonello nell’ottima versione di Antonio Malinverno, pseudonimo adoperato dal compianto Danni Antonello, con l’eccezione delle tre Lettere indesiderabili, tradotte da Andrea Chersi. Si tratta di un’antologia di scritti di un autore «irregolare», eretico, confinato in un limbo a causa della sua concezione libertaria della parola che si scontra con quella di un logos asservito alle dinamiche di un potere che irretisce gli uomini alla stregua di sudditi: «Nell’era dell’Assassinio del Verbo, la libertà consiste nel fare qualunque cosa per operare alla salvezza del senso delle parole».
Figura rimossa dall’establishment letterario, avversato soprattutto per il suo viscerale antistalinismo in un’epoca in cui imperversava il dogmatismo ideologico dei vari Aragon ed Éluard, contro cui si scagliò a più riprese, Robin fu poeta, romanziere, critico, giornalista, nonché traduttore da una ventina di lingue, tra cui russo, polacco, arabo, cinese, ebraico, italiano, tedesco, persino calmucco e uiguro. La padronanza di questi idiomi gli permise, durante il periodo bellico, di redigere bollettini d’ascolto delle trasmissioni radiofoniche estere dapprima per il regime di Vichy, poi per le opposte formazioni partigiane, misurandosi quotidianamente con la situazione politica internazionale, di cui divenne profondo conoscitore. Robin aderì in seguito agli ideali anarchici, stilando articoli per «Le Libertaire», periodico a cui collaborarono figure del calibro di Breton e Camus, il quale lo invitò a scrivere per «Combat». Isolatosi completamente, ruppe anche con il suo mentore Jean Guéhenno. La morte avvenne a Parigi in circostanze misteriose, dopo che la polizia lo aveva arrestato in seguito a un litigio avvenuto in un bistrot.
Spesso i suoi testi, che sembrano preludere alla critica effettuata da Debord alla «società dello spettacolo», rimandano alla tematica della comunicazione verbale, a cominciare da quella massmediatica, con esiti che sembrano prefigurare la dipendenza contemporanea dagli strumenti tecnologici. Nel Popolo dei telecomandati Robin associa la metafora della stregoneria al potere della televisione, con accenti che ricordano gli scritti radicali e iconoclastici dell’artaudiano Pour en finir avec le jugement de dieu: «Ecco infine gli assassini delle anime soddisfatti e grassi nella loro sicurezza: uno strumento ipermoderno, ogni anno (che dico, ogni giorno) anche più moderno, dona loro la speranza di riuscire, senza fili e senza tracce, in milioni e milioni di assassinii psichici a distanza, conducendo l’umanità all’alienazione mentale. Ecco qui, definita con grande precisione, un’opera di stregoneria».
È logico che, con simili presupposti, l’analisi delle varie trasmissioni radiofoniche diventi, per l’autore bretone, lo snodo per smascherare il tentativo di condizionare l’opinione pubblica, come nel caso della radio sovietica: «Mosca alla radio significa magnetismo, ipnotismo, occultismo, fachirismo, feticismo. Il che comporta poteri perfettamente reali: far agire a distanza folle e individui spossessati della loro naturalissima vita, desensibilizzare e falsificare il senso delle parole suggerendo come ultimo appiglio al pensiero le stesse, assassinate, parole». D’altronde Robin si scaglia contro tutto e tutti, arrivando a sfidare apertamente la Gestapo: «Vorrei essere minacciato con precisione. E d’altra parte sarebbe non rispettare l’ordine di assassinio, che diventa l’ordine consueto di questi tempi, costringere i candidati al mio assassinio a rovistare tutta la città per trovarmi; il mio attuale indirizzo è ignoto a quasi tutti; eccolo. Venite! Non scapperò! Lascerò addirittura la porta aperta».
Robin si candida «anticipatamente a tutte le liste nere. Una lista nera in cui non apparissi mi offenderebbe». Sa che la sua «testa intercambiabile succube della tempesta» gli attira antipatie sia da destra sia da sinistra. Si considera «non-nato, non-vivo e non-morto». Fiero delle proprie origini di contadino bretone che si esprime in dialetto fissel, aspira allo «spossessamento», all’annullamento della sua identità tramite una parola di cui percepisce tutta la mortificante incapacità a rappresentarlo. Le sue posizioni ricordano a tratti il recupero dell’analfabetismo compiuto da José Bergamín. Sarà allora la sua attività di traduttore o, come si definiva, «non-traduttore», a rendere meno sterile tale dissidio, facendo rivivere, con un’avidità da «mostro predatore» (Jaccottet), a scapito del proprio souffle, le voci provenienti da «un Eden anteriore alla torre di Babele»: Blok, Esenin, Majakovskij, Pasternak, Tou Fou, Chuang Tzu, Ady, Attila Jozsef, Puskin, Ungaretti. Ciò gli permetterà, come osserva Jacques Chessex nell’introduzione, «di sparire, prolungando illimitatamente l’opera in cui si annullava».