Born in the U.S.A., uscito il 4 giugno 1984, è il più grande successo di Bruce Springsteen, ha venduto 30 milioni di copie in tutto il mondo e ha solidificato l’immagine del cantautore di Freehold come una rockstar universale. Sono gli anni della presidenza di Ronald Reagan, con gli Stati uniti che vogliono proiettare un’immagine muscolare e vincente. All’apparenza anche questo album sembra andare in quella direzione: le canzoni suonano molto più pop di qualsiasi cosa Springsteen avesse registrato prima e il primo singolo, Dancing in the Dark, è un pezzo trascinante, perfetto per le classifiche. Ma la parola chiave qui è proprio «apparenza»: la copertina è una foto di Annie Leibovitz con la bandiera americana ben evidente sullo sfondo e un primo piano del sedere di Springsteen, con un cappello rosso che esce dalla tasca posteriore dei jeans e una t-shirt bianca. A un primo sguardo, è un’immagine retorica e pacchianamente patriottica, ma basta un minimo di approfondimento per capire che le cose sono più complesse di così: c’è anche chi ci ha visto Springsteen che orina sulla bandiera Born in the U.S.A. è un album volutamente ambiguo e basato sulle contraddizioni, in cui solo un approccio superficiale (come quello di Reagan in un discorso elettorale in New Jersey) non fa emergere la profondità dei temi.

NEL SUO Badlands, Alessandro Portelli spiega come la title track – che era nata come un dolente blues nelle session di Nebraska – ma non solo quella, sia costruita su una ferocissima critica del sistema politico ed economico dell’America di allora e, a posteriori, anche di oggi. Allo stesso tempo, però, il perfetto rock da stadio veste e in qualche modo nasconde queste critiche con un abito pop di facile ascolto e memorabilità. Sarebbe ingiusto e scorretto ignorare le due facce della medaglia. Le storie che Springsteen racconta nelle dodici tracce dell’album sono principalmente legate alla crisi economica di alcune zone degli Stati uniti vittime della deindustrializzazione o del liberismo selvaggio della «Reaganomics», in cui il lavoro non c’è più e non c’è nemmeno la possibilità di ottenere qualche tipo di supporto sociale, nemmeno per quelli che a parole erano ritenuti eroi, come i veterani del Vietnam. Eppure, anche a 40 anni dall’uscita, milioni di fan in tutto il mondo, dal New Jersey a Berlino Est nel 1988, a San Siro, continuano a cantare a squarciagola di essere «born in the U.sa», forse perché il sogno americano di cui Springsteen canta il fallimento, è comunque un sogno che vale la pena inseguire.