Il futuro dell’Italia è nell’agricoltura? A leggere gli straordinari numeri del settore agroalimentare, e se diamo credito e fiducia al ritorno nei campi degli under 35 come scelta di vita (+ 9% nel 2013, l’unico settore dove l’occupazione giovanile non viene mortificata dalla crisi) sembrerebbe proprio di sì. Le esportazioni di prodotti agroalimentari made in Italy, infatti, quest’anno sono decollate al punto che se si dovesse mantenere il trend di crescita del primo trimestre (+7%) si segnerebbe il record storico di 34 miliardi di fatturati all’estero. Queste si chiamano opportunità di lavoro nel prossimo futuro e il messaggio sembra essere passato proprio tra i più giovani se è vero che per l’anno scolastico 2012/2013 le iscrizioni negli istituti professionali agricoli sono cresciute del 29%, e negli istituti tecnici di agraria del 13%.
Questo non significa che siamo prossimi all’età dell’oro, perché dentro all’agricoltura, come spiega il presidente di Coldiretti Sergio Marini, «non c’è ancora reddito adeguato», e perché questo governo non sembra orientato a puntare su un settore che non ha solo una funzione economica ma anche sociale, etica ed ambientale. Eppure, al di là dalle contingenze politiche, il fenomeno della fuga quasi istintiva dei giovani dalle città assume una prospettiva storica perché incrocia un’esigenza che sta emergendo con forza dal mercato mondiale: tutti i continenti, Africa compresa, vogliono consumare cibo migliore e sempre più spesso scelgono cibo italiano.
Un dato ancora più straordinario se si tiene conto che la spesa alimentare delle famiglie italiane (fonte Istat), invece, è tornata indietro di venti anni dall’inizio della crisi ad oggi: nel 2012 gli italiani hanno speso 117 miliardi per nutrirsi, mezzo miliardo meno che nel 1992. E nel 2013 il crollo sarà ancora più devastante: si consuma meno olio di oliva extravergine (12%), meno pesce (11%), meno pasta (9%), meno latte (6%), meno ortofrutta (4%) e meno carne (1%). Crisi, però, vuole anche dire consumare meno ma meglio, ecco il perché del balzo in avanti della spesa a chilometro zero che ha raggiunto il fatturato record di 3 miliardi di euro grazie alla crescita del 40% delle imprese agricole accreditate a Campagna Amica che commercializzano i propri prodotti incontrando i consumatori nei punti vendita. In quei mercatini fanno regolarmente la spesa 7 milioni di italiani, e sono cifre impressionanti che ben fanno sperare in un “ritorno nei campi” della nostra migliore economia: 6.566 aziende agricole, 1.179 agriturismi, 330 cooperative, 1.125 mercati, 146 botteghe e 128 orti urbani per un totale di 8.200 punti vendita su tutto il territorio nazionale. Certo, non sono ancora numeri sufficienti per far uscire dalla crisi il settore agroalimentare italiano, ma indicano almeno qual è la strada giusta da seguire: la qualità dei prodotti. Perché se gli italiani che si impoveriscono se la possono permettere sempre di meno, o sono costretti a cambiare approccio per consumare meno ma meglio, il resto del mondo sembra apprezzare il made in Italy come mai prima d’ora. È un piccolo boom economico in tempo di crisi (34 miliardi di fatturati con l’estero), apparecchiato sulle tavole degli altri.
Nell’Unione europea, che continua ad essere il nostro principale mercato, la crescita quest’anno è piuttosto contenuta (+3%), ma nelle Americhe le vendite dei prodotti nostrani sono cresciute del 9%. Va ancora meglio nel mercato più appetibile, quello asiatico (+13%), mentre in Africa è vero boom con addirittura il 31% in più. Sul podio delle esportazioni (fonte Coldiretti) ci sono frutta e verdura, con un aumento del 7%, a seguire il vino che però registra una crescita più consistente (10%). Non possono mancare la pasta (+7%) e l’olio di oliva che si attesta sull’11% in più anche grazie alle recenti leggi “salva extravergine” che tutelano il prodotto nostrano dalle insidie degli intrugli taroccati di dubbia provenienza. C’è poi un dato sorprendente che, da solo, dovrebbe far scattare una task force ministeriale per rilanciare più settori dell’economia italiana: il consumo del nostro formaggio in Cina è cresciuto in un anno del 78% (Grana Padano e Parmigiano Reggiano sfondano con il 62% in più di acquisti). Tra i cinesi va forte anche la nostra pasta (+9%). Curioso anche un dato: in Gran Bretagna, la patria del whisky, la nostra grappa è cresciuta del 19%. Un successo difficilmente ripetibile sul mercato mondiale? Tutt’altro. Le esportazioni agroalimentari italiane potrebbero in realtà triplicare con una radicale azione di contrasto al falso made in Italy alimentare nel mondo che – secondo un’analisi della Coldiretti – vale oltre 60 miliardi di euro e toglie circa 300 mila posti di lavoro. «La lotta alla contraffazione e alla pirateria internazionale – ha ribadito Sergio Marini – rappresenta per le istituzioni un’area di intervento prioritaria per recuperare risorse economiche utili al paese e generare occupazione in un momento difficile di crisi». Ma bisognerebbe agire con determinazione nell’ambito di accordi internazionali, laddove il settore agroalimentare è stato spesso svenduto e sacrificato sull’altare di interessi diversi al di fuori della portata dei nostri politici poco lungimiranti.