Il 30 gennaio 1972 a Derry, in Irlanda del Nord, i militari di un’unità di paracadutisti britannici sparano sulla folla riunita per una marcia contro l’introduzione dell’internamento senza processo decisa dal governo unionista e che ha già portato alla detenzione di centinaia di militanti o semplici simpatizzanti della causa repubblicana. Alla fine della giornata si conteranno 14 vittime, spesso colpite alla schiena mentre cercavano di mettersi al riparo, sorprese dalla reazione brutale riservata ad una manifestazione pacifica. Dopo aver negato ogni colpa, le autorità britanniche hanno riconosciuto la piena responsabilità dei soldati solo nel 2010 e il premier dell’epoca, David Cameron, si è scusato a nome del suo Paese.

A cinquant’anni dai fatti, la vicenda del Bloody Sunday rivive nelle pagine de Il piccolo di papà (Nutrimenti, pp. 220, euro 17, traduzione di Maria Antonietta Binetti, introduzione di Riccardo Michelucci) di Tony Doherty che all’età di 9 anni vide il padre Paddy cadere sotto i colpi dei parà. Un romanzo attraverso il quale Doherty – passato per le fila dell’Ira, la prigione e le associazioni che a Derry lottano da sempre per ottenere verità e giustizia su quei fatti, prima di arrivare alla scrittura -, osserva la tragica storia dell’Irlanda del Nord attraverso gli occhi di un bambino, rivelando ai lettori una realtà che si fa passo dopo passo più sconvolgente e terribile. Misurando attraverso la trama del libro anche le tappe della propria storia personale, l’autore si fa così interprete di un racconto della «grande storia» che si nutre delle emozioni, le scoperte e i traumi di un ragazzino della comunità cattolica di Brandywell a Derry.

Sono passati 50anni dal Bloody Sunday: prima di poter scrivere quella che è anche una storia intima, di perdita e memoria c’era bisogno che si arrivasse a ristabilire la verità su quanto accaduto?
Da quando avevo solo 9 anni mi sono dovuto misurare con la dura realtà che mio padre era stato assassinato dallo Stato e che non era stato fatto nulla al riguardo. Ho trascorso l’adolescenza sentendo costantemente il peso di questa perdita che, unita all’assenza di verità, ha nutrito una rabbia interiore che alla fine mi ha portato ad unirmi all’Ira: ho prestato giuramento all’organizzazione in una casa che sorge a poche centinaia di metri da dove mio padre era stato ucciso. Molti della mia generazione credevano che l’unico modo per vendicarsi fosse quello di combattere: negli anni ’70 migliaia di repubblicani, per lo più appartenenti alla classe operaia, sono finiti in prigione per questo. Per molti, quella scelta derivava proprio dalle atrocità del Bloody Sunday. Questa è stata anche la mia vita, il clima nel quale sono cresciuto e ho fatto le mie scelte. Sono finito in carcere nel 1981 e sono uscito 4 anni dopo. E dopo l’85 ero ancora più convinto di prima che il ruolo esercitato dalla Gran Bretagna in Irlanda fosse sempre stato disastroso e dovesse finire, ma scelsi un’altra via: lavorare con le famiglie degli uomini uccisi a Derry. Era una promessa fatta a mio padre sulla sua tomba il giorno del mio rilascio. La campagna che seguì è culminata nel 2010 con la pubblicazione di un rapporto sugli eventi del 1972 che ha dimostrato la piena responsabilità dei parà inglesi e condotto alle scuse del Primo ministro britannico.

All’inizio il suo romanzo potrebbe far pensare a «La guerra dei bottoni», poi i giochi di voi bambini cedono il passo alla consapevolezza di quanto sta avvenendo, alla guerra vera e propria contro i civili. Scrivendolo è riuscito in qualche modo a incontrare di nuovo suo padre, a ritornare al periodo felice chiuso tragicamente dal Bloody Sunday?
All’epoca i nostri genitori dovevano essere letteralmente terrorizzati per noi. Non eravamo consapevoli del pericolo che avevamo intorno, ci siamo arrivati solo più tardi, con l’età. Vivevamo immersi in un clima di estrema eccitazione condito di rivolte, scontri a fuoco, incursioni dell’esercito ed eravamo impegnati nella raccolta dei proiettili e altri detriti di guerra dalle strade del nostro quartiere. Quanto a mio padre, giunto a metà dell’adolescenza avevo dimenticato molte cose relative al rapporto che avevo con lui. Nonostante fossi pervaso da un ardente desiderio di giustizia, lo conoscevo sempre meno man mano che crescevo. Nel 2013, seduti in cucina, io e mia moglie Stephanie riflettevamo su come eravamo diventati grandi all’interno del conflitto che incendiava Derry, quando mi sono ricordato di un incidente, avvenuto nel 1971. Mio padre era corso a casa per annunciarmi che un mio compagno di scuola, Damien Harkin, era stato ucciso, schiacciato da un camion dell’esercito britannico. Mia moglie mi ha suggerito di mettere per iscritto quel ricordo, e da lì ha preso corpo via via il progetto de Il piccolo di papà. Il processo di scrittura si è poi nutrito del dialogo con i miei fratelli e sorelle, mia madre (prima che morisse nel 2014), zie, zii e vicini di casa di allora: con i loro aneddoti mi hanno aiutato a mettere a fuoco delle cose che avevo in testa ma di cui non ero sicuro. Alla fine, di una cosa sono certo: ho restituito a mio padre il suo profilo reale, di uomo, non è più solo un nome su un monumento.

Cosa significava all’epoca appartenere ad una famiglia repubblicana e crescere in un quartiere cattolico di Derry?
Per me voleva dire non sentirsi davvero parte dello Stato in cui sono nato. A Derry era difficile trovare un’occupazione, specie per i cattolici, molti dei quali erano costretti a cercare lavoro in Inghilterra, per poi mandare i soldi a casa alle famiglie. Vivevamo in povertà, ma all’epoca nessuno se ne rendeva conto perché tutti erano poveri e non c’era altro con cui confrontare le nostre vite. Eravamo una famiglia molto felice, quattro maschi e due femmine. A quel tempo mia madre e mio padre erano però già consapevoli degli sviluppi politici della situazione e di come si andavano manifestando nelle strade. Quando iniziarono i troubles nel 1968-69 fu davvero l’inizio della fine per l’apartheid dell’Irlanda del Nord. Ora credo che quel sistema sia arrivato alla fine. L’idea dell’Irlanda in Europa dopo che gli inglesi hanno scelto la Brexit è emozionante. Tuttavia, può essere anche una fase pericolosa.

Nel libro racconta come all’arrivo dei primi soldati a Derry le reazioni fossero state positive: le mamme offrivano tè e panini ai militari e voi bambini facevate delle piccole commissioni per loro. Pensavate che l’esercito vi avrebbe protetto dalle violenze dei protestanti?
All’epoca si misuravano diverse prospettive. I più anziani e i più saggi erano consapevoli che gli eserciti, specie nella storia irlandese, non sono mai stati usati per proteggere le persone, bensì gli Stati. Dopo la battaglia di Bogside e i pogrom di Belfast contro i cattolici nel 1969, lo Stato aveva perso il controllo delle sue forze di polizia (la Royal Ulster Constabulary) ed era sull’orlo del collasso a causa delle sue stesse misure repressive. All’inizio del 1970 divenne chiaro che i soldati britannici erano venuti per sostenere lo Stato unionista che, a sua volta, era già coinvolto nella creazione degli squadroni della morte formati dai paramilitari lealisti e nell’attuazione di misure draconiane come l’internamento senza processo contro cui era stata convocata anche la marcia del Bloody Sunday. I parà avevano cominciato ad uccidere persone innocenti su larga scala già nel 1971 a Belfast, senza che vi fosse alcuna «complicazione» legale: quando arrivarono a Derry erano ben addestrati.

La verità sul Bloody Sunday è stata riconosciuta dalle autorità del Regno Unito solo nel 2010. Cosa ha rappresentato per lei quel momento e quanto pensa abbia aiutato i più giovani, nati negli ultimi decenni, ad avere una nuova consapevolezza di ciò che è accaduto nell’Irlanda del Nord?
Il governo britannico ha accettato la totale responsabilità dei fatti avvenuti a Derry il 30 gennaio del 1972. Tuttavia, nessun soldato è stato condannato, anche se uno di loro, «il soldato F.» – che ha ucciso mio padre – è un assassino di massa che ha ucciso cinque tra uomini e ragazzi nell’arco di 20 minuti. Quell’ammissione è stata molto importante per le famiglie delle vittime, per la gente di Derry, per la pace, la verità e la giustizia. Credo che la nostra lotta per la giustizia, anche se non è finita, serva da ispirazione per molti giovani a Derry, in tutta l’Irlanda, ma anche oltre. Per capirlo si può anche visitare il sito museumoffreederry.org che rappresenta la migliore testimonianza della volontà di un popolo di rifiutare con tenacia di essere oppresso.