Visitare in un biodistretto vuol dire immergersi in una zona d’Italia dove il «biologico», in tutte le sue espressioni, è il padrone di casa. Qui si mettono in pratica le linee guida dello sviluppo ecologico, condiviso dal basso e partecipato. Parole dolci per le ambizioni della Commissione Europea che punta a far sì che entro il 2030 il 25% dei terreni coltivati seguano il metodo dell’agricoltura biologica. E non per nulla la parola biodistretti è inserita nel Piano d’azione per lo sviluppo del settore bio presentato a marzo dal Commissario per l’Agricoltura Janusz Wojciechowski. «Il biodistretto è un patto per lo sviluppo bio del territorio, sottoscritto dagli agricoltori biologici, le amministrazioni e le associazioni locali», racconta Alessandro Triantafyllidis, coordinatore rete Aiab dei Biodistretti e presidente del Biodistretto Val di Vara.

«È UN PROGETTO FORTE perché lega e coinvolge chi il territorio lo amministra, comuni o parchi, chi realmente lo gestisce, agricoltori, allevatori, operatori forestali, e, non ultimo, chi ci vive. Qui il bio è visto come la locomotiva trainante dell’economia verde di un territorio. Un’agricoltura inclusiva che deve sapersi legare anche agli altri settori economici, dal turismo all’artigianato. E’ una forte esigenza che si legge nel fiorire di biodistretti degli ultimi anni che ha sviluppato il cosiddetto Biologico del Territorio, una denominazione di origine al prodotto locale. Dal 2000 Aiab è impegnata nello sviluppo di propri biodistretti, attualmente sono 23 quelli funzionanti che si rifanno alle nostre linee guida. Esistono altri distretti biologici che sono nati in autonomia o nell’ambito di altre associazioni. In Italia sono poco meno di quaranta».

Triantafyllidis, che cosa significa vivere all’interno di un biodistretto?

Significa essere protagonisti attivi, attori dello sviluppo, comprando bio, partecipando agli eventi e collaborando alle iniziative. Il benessere è diffuso e non limitato agli operatori della filiera. Ecco gli elementi distintivi principali dei biodistretti.

Com’è gestito?

Il biodistretto è quasi sempre un’associazione non a scopo di lucro. Di conseguenza ricade nell’ambito del nuovo codice per il Terzo Settore. Nelle linee guida Aiab la maggioranza del consiglio direttivo dev’essere saldamente in mano al settore privato e agli operatori biologici, così come il presidente non dovrebbe essere un rappresentante delle amministrazioni pubbliche. La governance del biodistretto varia da territorio a territorio, ma nell’ambito della Rete Aiab il format di cui sopra viene sempre confermato. Questa è la nostra garanzia di vedere i produttori rappresentati e protagonisti. Ancora oggi molto lavoro di gestione si basa sul volontariato, ma alla lunga è un modello che tende a non reggere la quantità di lavoro e il livello di aspettative che spesso il biodistretto produce. Il passaggio a una gestione professionale delle attività è fondamentale.

La certificazione biologica di tutto il biodistretto è il punto di arrivo?

Il punto di arrivo ottimale sarebbe il cento per cento di superficie bio, mentre l’obiettivo ideale è un territorio che preservi la fertilità del suolo, l’agrobiodiversità, che diffonda pratiche agronomiche e agro-ecologiche per la coltivazione. In altre parole, un territorio libero da pesticidi di sintesi. Alcuni territori sono già a buon punto come, per esempio, la Val di Vara (La Spezia) che supera il 60% di superficie agricola utilizzata certificata bio e il Chianti (Firenze) che arriva al 40%.

Come si esplicano le azioni di consumo critico che portate avanti in Calabria?

Le attività di consumo critico nel Grecanico (Reggio Calabria) si concretizzano sullo stimolo e sostegno all’autoproduzione. Nel senso che il contesto è tale per cui molte famiglie potrebbero prodursi frutta e verdura, ma anche i trasformati di base, come pasta e il pane. Aiab Calabria con il biodistretto Grecanico fa formazione per spingere le famiglie all’autoproduzione di tutto ciò che è possibile, seguendo il metodo bio e senza uso di chimica di sintesi.

Lei è anche presidente del Biodistretto Val di Vara che ha alle spalle un percorso pluridecennale di attenzione alla natura e all’agricoltura biologica. Cos’è cambiato per gli abitanti della zona e quali ricadute ci sono state in termini ambientali?

L’agricoltura, che era poco impattante anche prima, si basa, e si basava, essenzialmente su sistemi molto estensivi con grande utilizzo della risorsa pascolo. Il grande cambiamento che ha portato il biologico dalla fine degli anni Novanta è stato quello di mantenere il tessuto produttivo e nel far rimanere alcuni giovani nelle campagne, cosa che, purtroppo, non si può dire per il resto delle aree interne liguri dove l’abbandono è stato enorme. Il biologico ha fermato l’emorragia. Ha permesso alle ultime due grosse cooperative regionali, entrambe in Val di Vara, di rimanere attive e di espandere il fatturato. Ha indotto nuove realtà produttive a crescere sul territorio: aziende agrituristiche, apistiche e di erbe aromatiche. Oggi in valle il biologico è uno status quo, non si discute.

Nella legge sull’agricoltura biologica ferma alla Camera, dopo che il Senato a maggio l’aveva approvata a grande maggioranza, si parla di biodistretti. Qual è il suo pensiero su questa legge e in particolare sulla norma che vi riguarda?

L’impianto della legge è soddisfacente e tocca vari temi, dalla ricerca alle sementi fino ai biodistretti, ma se aspettiamo ancora un po’ quando uscirà sarà già vecchia. È una legge che il settore aspetta da dieci anni. Per quanto riguarda i biodistretti, siamo stati attivamente coinvolti nella formulazione dell’articolato, che è del tutto soddisfacente. Molto andrà definito nei decreti attuativi dove verranno fissati i criteri per il riconoscimento dei biodistretti, presenza di biologico, dimensioni minime. Lì si giocherà la vera partita. L’obiettivo rimane il riconoscimento del biodistretto per poter accedere a finanziamenti, come i Piani di sviluppo rurale (Psr).

Si è parlato tanto di agricoltura biodinamica e spesso male. Che ne pensa?

Nei biodistretti le aziende biodinamiche ci sono, anche se spesso in numero limitato. Non esiste ancora un distretto a chiara trazione biodinamica. Per quanto riguarda il grande clamore mediatico, peraltro solo italiano, scatenato da alcuni esponenti della comunità scientifica più fondamentalista, posso dire che da sempre l’agricoltura biodinamica fa parte del movimento biologico, anche dal punto di vista normativo. Il primo regolamento comunitario del 1991 accomunava biologico e biodinamico, cosa che perdura anche nel nuovo regolamento in uscita nel 2022. Il calendario delle semine biodinamico è ampiamente utilizzato da molti produttori bio.

Se dovesse consigliare a un lettore due biodistretti da visitare, escludendo la sua Val di Vara, quali indicherebbe?

Difficile e ingiusto dare solo due nomi. Al nord ne indico un paio: il biodistretto Sociale di Bergamo, per la bellezza della città, per quello che hanno passato con la prima ondata Covid-19 e per le tante attività che svolgono per il consumo critico e la giusta informazione agricola. L’altro è il biodistretto dei Colli Euganei, nell’omonimo Parco regionale in provincia di Padova. Qui è possibile seguire gli itinerari dei vini bio nel complesso termale locale. Per il sud la Calabria, il mare e la vasta agrobiodiversità presente nel Biodistretto del Grecanico), fiore all’occhiello della Rete Aiab. Tutti sono meritevoli di una visita e vi invito a guardare il sito www.aiab.it/biodistretti.