Storica presenza al Sana, FederBio non ha mancato nemmeno questa 31esima edizione dell’expo. Nata quasi 30 anni fa per tutelare e favorire lo sviluppo della filiera biologica e biodinamica, la federazione nazionale rappresenta la quasi totalità delle realtà di settore nei tavoli istituzionali, dalla produzione alla certificazione. La sua presidentessa, Maria Grazia Mammuccini, si è impegnata in prima persona nell’organizzazione dei panel divulgativi e tecnici.

Mammuccini, durante la fiera avete ricevuto i saluti della neoministra all’Agricoltura Teresa Bellanova, che ha riconosciuto il Sana come «punto di riferimento internazionale per il bio». Poche ore dopo, la stessa Bellanova dichiarava di voler «aprire un confronto sugli Ogm», ma gli alimenti biologici non li possono contenere per legge. Lo ritenete un passo indietro?

Certamente il messaggio della ministra Bellanova ha portato un clima positivo al Sana, avendo spinto per accelerare la legge sul biologico. Le dichiarazioni successive ci sembrano però una contraddizione, perché gli Ogm sono incompatibili con il bio e la transizione ecologica dell’agricoltura italiana oltre che con il Made in Italy. FederBio su questo ha sempre avuto una posizione molto chiara.

Un’eventuale ratifica del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada, a cui ha aperto la ministra, vi preoccupa?

La questione del Ceta è ancora aperta, sarà il governo a scegliere la strada che ritiene più opportuna, anche se per noi la priorità rimane il Made in Italy. Ciò che troviamo più impattante è senza dubbio il tema degli Ogm.

Chiederete un incontro con la ministra?

Sì, soprattutto per parlare delle strategie del biologico.

Cosa ne pensa invece del Green New Deal inserito da Pd-M5S nel programma di governo? Un primo passo verso la legge sul biologico ferma al Senato?

Ce lo auguriamo. Siamo rimasti positivamente colpiti dal discorso di insediamento del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha inserito la filiera biologica quale elemento fondamentale per una transizione ecologica. Se parliamo di economia verde, il bio è un esempio concreto a disposizione immediata, in particolare nel contrasto al cambiamento climatico.

Oltre al ruolo di contenimento degli effetti del climate change, quali sono le garanzie che offre il marchio biologico al consumatore?

Il prodotto biologico, contrassegnato dalla fogliolina verde con le stelle dell’Unione Europea, ha una regolamentazione precisa: le normative comunitarie determinano come coltivare, i controlli verificano l’applicazione corretta. Si tratta dell’unica tipologia di prodotti con una certificazione basata su un regolamento europeo. È chiaro che in una fase di espansione come quella attuale il rischio sono le frodi, e su questo fronte FederBio è sempre stata in prima fila per costituirsi parte civile quando il biologico viene applicato a prodotti che non lo sono. Chiediamo che il sistema dei controlli alzi ancora di più l’asticella, anche attraverso percorsi innovativi come piattaforme di tracciabilità o sistemi digitali.

Chi certifica il biologico in Italia?

Sono enti di certificazione privata che devono essere riconosciuti da Accredia, l’Ente italiano di accreditamento, e poi autorizzati al controllo sul biologico dal ministero dell’Agricoltura.

C’è chi contesta questo sistema perché gli enti certificatori sono gli stessi che fanno i controlli.

La certificazione è sempre legata al controllo. Se gli enti privati certificassero e il pubblico facesse i controlli si avrebbe un’incidenza sui costi pubblici eccessiva. C’è poi chi critica il fatto che gli enti certificatori vengono pagati dalle aziende, ma questo vale per tutte le attività, anche per le denominazioni d’origine. Se si dovesse cambiare sistema, dovrebbe valere per tutti.

I dati forniti da Nomisma, che ha curato l’Osservatorio Sana, hanno confermato la leadership dell’Italia nell’export e l’andamento in crescita delle vendite (+5,3% nel 2018). Il bio stia diventando insomma un fenomeno di massa, con opportunità e rischi. Come informare i consumatori in maniera corretta della differenza tra marchio bio e altri prodotti?

Gli acquisti del biologico sono cresciuti senza che vi fossero campagne di informazione adeguate, fa parte ormai di una sensibilità che i cittadini hanno. Ma è chiaro che bisognerebbe rafforzare la comunicazione, sia nel rapporto diretto tra produttori e cittadini, sia con campagne messe a punto dal pubblico.

Cosa dovrebbero sapere i consumatori?

Andrebbero comunicati tre valori fondamentali: il biologico punta a mantenere la fertilità del suolo attraverso la concimazione organica e la gestione agronomica delle rotazioni colturali, dei sovesci, della trinciatura delle erbe; fondamentale perché la sostanza organica nel suolo consente di contrastare il cambiamento climatico. Poi c’è la tutela della biodiversità negli spazi naturali e agricoli, infine il fatto che l’agricoltura biologica non utilizza la chimica di sintesi, quindi nessun pesticida, concime chimico, diserbante. E se il biologico costa un po’ di più, è perché questo metodo produttivo occupa più persone: l’incidenza di lavoro è del 30% superiore al convenzionale.

Il concetto di sostenibilità ambientale si lega a quello etico, ma rischia di rivelarsi un’etichetta vuota. Come si impediscono nella pratica lo sfruttamento della manodopera e le infiltrazioni delle agromafie?

È evidente che un sistema come quello del biologico offre maggiori garanzie anche nell’approccio corretto al lavoro. Non ci sono al momento norme specifiche, ma c’è un indirizzo di ordine generale che rappresenta un tratto identitario delle aziende biologiche: la difesa dell’ambiente e della salute sono strettamente connesse all’etica del lavoro. Alcune aziende rendono tracciabile anche la catena di composizione del prezzo, mettendo in evidenza la remunerazione dei produttori agricoli, proprio nel rispetto dei lavoratori.

Come si tutelano le piccole produzioni locali, forse quelle su cui l’Italia può essere più competitiva, rispetto alla GDO con un peso sempre più forte basato sul modello dell’agricoltura industriale?

Lo stesso Manifesto del bio 2030 indica più soluzioni. Una strada da perseguire può essere quella delle filiere corte locali, del rapporto diretto produttore-cittadino, che offre grandi opportunità alle piccole e medie imprese. E direttamente collegata alle filiere corte, ci sono le esperienze dei bio-distretti.

Dei bio-distretti tratta proprio il disegno di legge sul biologico.

Esatto. Sono un punto importante sia nella legge sul biologico sia nel Manifesto 2030. Però se vogliamo dare garanzie al consumatore anche su prodotti di larga scala, e se vogliamo salvare il pianeta, dobbiamo convertire buona parte dell’agricoltura al biologico. Aumentare la produzione significa costruire filiere del Made in Italy bio in cui tutti i passaggi dal produttore alla distribuzione siano resi trasparenti, trovando il giusto prezzo anche per l’agricoltore. Abbassare i prezzi non garantisce né la tutela dell’ambiente, né il rispetto dei lavoratori, né prodotti sani per i cittadini.

Cosa vi aspettate quindi dalla riforma della Politica Agricola Comune 2021-2027?

Che cambino aspetti importanti, perché fino ad oggi le maggiori risorse finanziarie sono andate al convenzionale. Il bilancio comunitario per il 38% ancora è dedicato all’agricoltura e una quota così alta può essere mantenuta solo se l’Unione Europea aiuta chi produce beni pubblici. Dobbiamo puntare ad avere indicatori concreti di risultato, che ci dicano quanto è aumentata la sostanza organica nei suoli, quanto si è ridotto l’inquinamento delle acque da pesticidi, quanto è aumentata la biodiversità con le pratiche agricole biologiche. Il biologico è in grado di dimostrare i benefici che riesce a produrre, ma purtroppo fino ad oggi i benefici sono stati misurati solo sull’aumento delle documentazioni burocratiche.