Quattro settimane per quattro fashion week: otto giorni a New York, cinque a Londra, sei a Milano e nove a Parigi. Si possono tirare le somme e prendere appunti per gli stati generali.

I tempi. Non si capisce perché la settimana della moda di New York debba durare così tanti giorni: in attesa che a febbraio 2017 Raf Simons presenti la sua prima collezione per Calvin Klein, questa volta la moda poteva essere presentata in due ore, cioè il tempo per recarsi alla sfilata di Marc Jacobs, assistervi e tornare a casa. Anche la durata di Parigi è spropositata rispetto all’effettivo calendario: ridotta di qualche giorno potrebbe dare più spazio a Milano la cui offerta di moda non ha molto da invidiare alla sua.

La moda. Ancora una volta, per la primavera/estate 2017 i designers hanno lavorato come i DJ: hanno remixato una moda già fatta, spesso da altri. Tra le poche proposte, anche i debutti di stagione sono stati controversi. Archiviato il debutto di Anthony Vaccarello da Yves Saint Laurent come la «Zarafication della moda» (l’ha scritto il quotidiano americano WWD, intendendo che la collezione era una ripetizione da largo consumo dell’ultima mandata in passerella da Hedi Slimane), è stato promosso a pieni voti il primo canto da solista di Pierpaolo Piccioli da Valentino. Invece, la prova della sua ex co-direttrice Maria Grazia Chiuri da Dior è stata salutata con qualche pretestuoso arricciamento di narici perché, è stato scritto, il lavoro è troppo simile a quello che faceva da Valentino. Qualche ciglio l’ha fatto alzare anche Miuccia Prada perché sia con la collezione Prada a Milano sia con quella di Miu Miu a Parigi ha citato se stessa. A sua difesa va detto che ha il coraggio di remixare se stessa, come faceva Gioacchino Rossini. Sempre più in vetta alle attenzioni è, infine, Alessandro Michele che da Gucci addiziona stimoli e riesce a mimetizzare il remix con le “ripetizioni” e gli “a capo” che funzionano nelle opere barocche di Händel. E comunque, soltanto Rick Owens sembra rimasto a compone una musica che canta da solo.

Le polemiche. Ne sono scoppiate parecchie. A partire dai licenziamenti di Justin O’Shea da Brioni e di Peter Dundas da Roberto Cavalli. Il primo, buyer per un un sito di e-commerce tedesco, era diventato stilista grazie alla sua esposizione da divo sui social network. L’azienda l’ha assunto, ma ha dovuto ricredersi nel giro di sei mesi. Il secondo, assunto a marzo del 2015, dopo tre collezioni  in un anno e mezzo non è riuscito a mettere a fuoco un progetto funzionale per il brand. Il grave è che in entrambe le aziende ci sono centinaia di persone che rischiano il posto di lavoro, quindi un po’ di cautela in più nelle assunzioni di direttori creativi che guadagnano milioni di euro all’anno è doverosa. Ma la polemica più ridicola l’hanno innescata i redattori di vogue.com che hanno dichiarato guerra a blogger e influencer. L’accusa: siete dei testimonial pagati dalle aziende. La difesa: anche i giornali di moda fotografano soltanto i vestiti degli inserzionisti. Vista così, è una lite da cortile. In realtà, ha messo a nudo due verità. La prima: gli influencer non hanno mai fatto informazione. La seconda: le aziende della moda che pagano gli infuencer sbagliano target perché pochissimi dei milioni di followers di uno qualsiasi di loro può comprare gli abiti che pubblicizzano. La prova è che un colosso del mass market come Procter & Gamble ha dato a una influencer il ruolo di global ambassador perché sa che tutti i suoi sei milioni di followers nel mondo possono spendere circa due euro per comprare lo shampoo che pubblicizza.

 

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