I grandi amori si riconoscono dopo, quando il tempo ha interposto fra te e loro un certo distacco e hanno smesso di essere pura passione. Quando le passioni resistono ai cambiamenti, ai passaggi importanti, alla lunga distanza, allora capisci che sono diventate un amore che conta. Sarò fatta strana o diversa, ma il primo grande amore consapevole non l’ho provato per una persona, ma per un oggetto, la bicicletta.

 

 

Ne ho avute quattro importanti e ognuna ha segnato un’età, uno scavallamento esistenziale. Con le mie biciclette ho scoperto, esplorato, riso, pensato. Con loro ho pedalato per perdermi o ritrovarmi. Sono state la mia forma di meditazione, le mie analiste fai-da-te, la mai fuga e la mia compagnia. Per tutto ciò ora posso affermare con assoluta certezza che la bicicletta è stata il mio primo grande amore e che la amerò per tutta la vita.
La prima fu una Bianchi rossa. Era così piccola che in famiglia la chiamavano La Bianchina. Avevo diciotto mesi quando me la regalarono e fu un colpo di fulmine, l’imprinting che mi marchiò per sempre. A ripensarci ora, credo che dietro quel regalo ci fosse l’astuto e insieme inconsapevole calcolo di mia madre che, auspicando per la sua prima figlia un destino più allargato del suo, d’istinto volle ispirarmi con un oggetto che dava libertà e prospettive di fuga. Scegliendo di regalarmela mi consegnò, me ne rendo conto solo adesso, un testimone e una parte di sé. È stata mia madre la grande vestale e ispiratrice di quell’incontro che sarebbe stato determinante per la mia sete di esplorazione, ma che nello stesso tempo mi lega ai miei luoghi di origine in modo indissolubile. La bicicletta è stata l’oggetto che mi ha ispirato il desiderio di cercare un altrove e, contemporaneamente, non mi farà mai sentire lontana da dove sono nata e cresciuta. È lo strumento di una sofisticata operazione di ingegneria affettiva.

 

 

Per capire  come la Bianchina assunse una tale importanza nella mia formazione, bisogna inquadrare il contesto geografico e temporale nel quale ci unimmo. Si era alla fine degli anni Cinquanta e in campagna, nella Bassa parmense. Da quelle parti ancora oggi ti mettono dentro un sellino attaccato al manubrio ancora prima di camminare. Da lì a sedersi su una bici in miniatura il passaggio è breve, fa parte dell’educazione primaria e di base, è qualcosa che si dà per scontato. Siccome io ero stata molto precoce nel muovere i primi passi, a mia madre sembrò naturale farmi inforcare una due ruote prima possibile e appena si uscì dall’inverno.

 

 

Nata e cresciuta a pochi chilometri dal Po, anche mia madre ha mangiato pane e pedali fin dalla nascita. In bicicletta si muoveva dalla casa colonica in cui era nata al paese vicino per andare a scuola, in bicicletta andava a trovare le amiche, in bicicletta andò a lezione di taglio e cucito a Parma. Che nevicasse, piovesse o ci fosse il sole cocente, lei e il gruppetto di aspiranti sarte percorrevano ogni giorno diciotto chilometri all’andata e diciotto al ritorno su strade non asfaltate, tortuose e piene di buche, felici di pedalare e chiacchierare di tutto, degli abiti che avrebbero cucito, dei corteggiatori, dei film che avevano visto o avrebbero voluto vedere, della città così diversa dalla campagna dove vivevano, dei loro sogni e della vita che si apriva davanti, come la strada. Tante volte ho immaginato quel gruppo di ragazze che pedalano insieme, con le gonne gonfiate dal vento e le reticelle sopra la ruota di dietro che impediva al tessuto di entrare nei raggi e di rompersi. È un’immagine che di tanto in tanto mi spunta davanti da sola e che mi ha sempre fatto pensare alla bellezza delle possibilità.

 

 

Se mia madre fu la regista del mio incontro con la Bianchina, a mio padre toccò la meccanica. Non assunse quel compito perché amava la bicicletta, ma per sentimento paterno e solidarietà genitoriale. Lui era nato in collina e amava soprattutto scarpinare su e giù per tornanti, ma noi si abitava in pianura e così, su di me, vinse l’influenza materna. Sebbene fosse minuscola, la Bianchina rossa era troppo alta per le mie gambe. Per quanto mi sforzassi, non arrivavo ai pedali e così mio padre vi avvitò sopra due spessori di legno che aveva costruito lui stesso. Poi, per permettermi di pedalare fin da subito senza cadere, attaccò alla ruota posteriore due rotelline che stabilizzavano la Bianchina trasformandola in una specie di triciclo.

 

 

Appena ci salii sopra, mi sembrò di aver trovato il mio posto nel mondo. Attorno alla casa dove vivevamo, in campagna, c’era un grande cortile di terra battuta che era tutto una buca e, sul lato della facciata, era un poco in salita. Poiché mi era proibito andare da sola sulla strada che passava lì davanti, c’era una sola cosa che mi permetteva di pedalare senza fermarmi: girare in tondo attorno al casone. Cominciò così il mio giro del mondo. Non dovevo chiedere il permesso a nessuno. Uscivo di casa, saltavo sulla Bianchina e cominciavo la mia corsa che a ogni giro aumentava di velocità. Ben presto una delle rotelle divenne sbilenca e per bilanciare lo sderenamento cominciai a girare nell’altro senso. Quando anche la seconda rotella si piegò, mia madre capì che le rotelle non servivano più e chiese a mio padre di toglierle. Senza quella zavorra, la Bianchina diventò più leggera e maneggevole. Quando poterono togliere i legnetti dai pedali, la mia confidenza con lei era diventata totale e le giravolte attorno al casone più rapide.

 

 

Pedalavo appena potevo e quanto potevo. Pedalavo di mattina, di pomeriggio e di sera, felice di sentire tutta quell’aria addosso, sulla faccia, sul petto, sulle gambe. Pedalavo e provavo curve più strette e più larghe, schivavo le buche o vi entravo per vedere che effetto faceva. Ogni tanto mia madre usciva di casa e mi diceva: «Mo Mariangela basta. Vieni un po’ dentro che sono tre ore che giri come una trottola». Ma niente da fare, ormai avevo addosso il virus di quel desiderio e nulla e nessuno me lo avrebbe più tolto.

 

 

Solo una cosa riuscì ad attenuare quell’ossessione, l’altalena. La costruì mio padre. Era un’altalena rudimentale, fatta di un pezzo di legno con due buchi laterali nei quali aveva infilato due catene. La attaccò al tronco dei due altissimi pioppi che delimitavano il prato accanto al casone. Quell’altalena non aveva schienale, non aveva protezioni né davanti né dietro e poteva arrivare fino alle prime foglie, a oltre tre metri da terra.
Quando ero stufa di girare in tondo con la Bianchina, scendevo, la lasciavo sul prato, salivo sull’altalena e mi lanciavo verso il cielo, su, sempre più su. Quando ero nel punto più alto possibile, nell’esatto momento che precede la discesa, l’altalena sobbalzava sotto il sedere e dovevo tenermi fortissimo con le mani, tendere i muscoli del bacino e piegare le gambe per non cadere. In quel preciso istante sentivo lo stomaco saltare fino alla gola e lì capii che cos’era il rischio.

 

 

L’altalena era una sfida, la Bianchina una compagna. L’altalena era una tentazione a oltrepassare i limiti, la Bianchina un’amica di scorribande. L’altalena chiedeva controllo, la Bianchina ti lasciava pensare. Una cosa avevano in comune, l’aria. Ho vissuto la mia prima infanzia cercando l’aria che ti arriva addosso, sempre più veloce, sempre più forte, sempre più fresca. E proprio nel momento in cui dagli occhi strizzati cominciavano a uscire le lacrime della velocità, ridevo e bevevo l’aria e ridevo. Lì mi sentivo completamente libera. Ed ero felice.
1. continua