Il «film d’opera» è una antica tradizione italiana del secolo scorso, che quando raramente capita di vedere in tv,  lascia curiosi di un in-canto certo oggi assai polveroso. Il discorso potrebbe riaprirsi domani, quando su Rai3, alle 16.15, andrà in onda un film nuovo di zecca, finito di lavorare letteralmente ieri, che Mario Martone ha preparato per il Teatro dell’Opera di Roma, di cui costituisce l’inaugurazione di stagione, assente solo il pubblico causa pandemia. Rai Cultura, che ha preso l’iniziativa, lo riproporrà poi la sera di San Silvestro, e sarà l’ancora di salvezza dai rumorosi e sgangherati capodanni tv che segnano generalmente il botto augurale.
L’opera è Il barbiere di Siviglia, che pare curiosamente aderire per molti aspetti al diagramma biografico di Martone regista: Rossini infatti compose l’opera, dopo una intensa attività napoletana, per il teatro Argentina di Roma, dove lo spettacolo ebbe qualche rimostranza al debutto, prima di diventare famosissimo e popolare, amato e canticchiato da tutti. Per non parlare dell’ 800, terreno privilegiato del lavoro del regista da Leopardi a Noi credevamo. È lui stesso a schernirsi sorridendo sui tempi necessari: «Si dice che Rossini abbia composto l’opera in due settimane, io ho dovuto farne un film in un mese…». Tornando serio, Martone ci tiene a ribadire che «Cinema e teatro sono per me una partita aperta: basta pensare ai miei ultimi lavori, dal Sindaco del rione Sanità al lavoro su Scarpetta che da poco ho finito di girare. I linguaggi si parlano e si intrecciano. Nel film dal Barbiere di Siviglia, i materiali sono tutti squisitamente teatrali, dalle corde che imbragano lo spazio al baule usato normalmente per riporre gli attrezzi di scena, che diventa elemento scenografico di mobilia».

ALL’OPERA di Roma era stato programmato da tempo un allestimento mozartiano per Martone, passato nel tempo dalla Clemenza di Tito al Don Giovanni (Martone aveva realizzato qualche anno fa l’intera trilogia italiana di Mozart, culminata con Così fan tutte a Ferrara diretta da Claudio Abbado, edizione divenuta storica). Infine, poche settimane fa, la decisione presa col sovrintendente Carlo Fuortes di passare, causa chiusura dei teatri, e sempre via Beaumarchais, al capolavoro di Rossini, con tutte le limitazioni e le restrizioni imposte dal virus, e destinato alla tv. Di Rossini Martone rivendica l’averne già realizzati diversi: «Ma questo è il primo creato fuori del Rossini Opera Festival di Pesaro, ed è un autore che amo moltissimo».

QUESTO Barbiere è ambientato ora in tutti gli spazi del teatro Costanzi, senza il pubblico ovviamente che lo vedrà solo proiettato, ma la cui platea è «ingabbiata» in una cupola di corde come fosse una tensostruttura, invenzione scenica dello stesso regista. Una presenza «trasparente» ma molto forte quella dei lacci, che quasi imprigionano i personaggi e la visuale (fino a un colpo di scena finale…). A dirigere l’orchestra è il direttore musicale dell’Opera, Daniele Gatti, i costumi (d’epoca invece) sono di Anna Biagiotti, mentre Pasquale Mari firma le luci e quindi la fotografia del film. Molto giovane il cast, cantanti stranieri di sicuro avvenire (e molto coinvolti e divertiti dalla direzione di Martone). Unico «veterano», sicuro padrone della scena, è Alessandro Corbelli, presenza di peso nel ruolo di Don Bartolo. Perché lo scontro generazionale, tanto più in questa edizione di trasparente ed essenziale fisicità, dove sono gli stessi elementi del teatro a costituire nutrimento e destini delle persone, assume immediatamente un valore quasi politico: in un mondo governato dai Don Bartolo e dai Don Basilio, egoisti e anche imbroglioni, è la forza del cuore e dell’intelligenza a beffare l’ordine costituito.

UNA SCELTA di «austerità» scenica che molto ci parla, e che controbilancia in qualche modo quella del grande successo «planetario» dell’estate scorsa per lo stesso Teatro dell’Opera, quel Rigoletto al Circo Massimo che la regia di Damiano Michieletto ha fatto rombare e dilatare in supertechnicolor assieme ad angherie e sentimenti del Duca di Mantova e dei suoi sudditi. Carlo Fuortes vede le due strade entrambe come sbocchi, sebbene diversi, del prender coscienza che non si possa più fare teatro come prima: «Il teatro deve sempre confrontarsi col presente. L’esperienza di quel Rigoletto ha coinciso con una sorta di ritorno alla vita dopo il primo lockdown: si poteva tornare all’opera, per di più all’aperto, in un luogo magico di Roma, e con un pubblico numeroso grazie allo spazio: da qui l’effetto cinematografico, il grande schermo, le grandi auto e gli effetti scenografici. Così come la Zaïde che dopo abbiamo realizzato dentro il Costanzi, si misurava con spazi ed esigenze di un teatro al chiuso e distanziato. Ora per questo Barbiere non è possibile neanche avere un pubblico in teatro. È la realtà a indicarci le scelte». Ovviamente vero, ma resta il dubbio se il packaging esasperato di certe regie liriche, senza voler essere «passatisti», aiuti poi a trasmetterne l’emozione e la bellezza (e non vale solo per lo stile Michieletto, ma anche per certe inaugurazioni scaligere in cui Tosca sembrava morire per un corto circuito elettrico). Questa scarna barberìa di Figaro promette piaceri di maggior gusto.