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Il bambino invecchiato è ritornato fra di noi: Gatto

Il bambino invecchiato è ritornato fra di noi: GattoAlfonso Gatto (1909-’76) con il suo busto, realizzato dallo scultore Farpi Vignoli, 1940

Poesia Novecento La riedizione dell’Oscar Mondadori con «tutte le poesie» è arricchita di alcuni testi inediti e – la sorpresa più gradita– delle rime e ballate per bambini del «Vaporetto» 1963

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 17 settembre 2017

«Sarà difficile che il lettore mi creda, ma nel rileggere questi versi mi son venute spesso le lacrime agli occhi. Il sentimento che mi ha commosso leggendo i vecchi versi di Sereni e di Gatto è un sentimento forte e, malgrado la molta retorica su di esso, raro: il ricordo della giovinezza e del suo tempo. Non è rimpianto, non è intenerimento: è ricordo e basta». Così, nell’aprile del 1973, Pier Paolo Pasolini, in una pagina che si legge nelle sue splendide Descrizioni di descrizioni. Nei versi dei suoi «fratelli maggiori», oltre a ritrovare ancora «intatta» la «realtà di quegli anni» – gli anni Trenta e Quaranta in cui i due poeti ricordati pubblicano le loro prime cose – Pasolini rivede anche tutti i «vezzi», i «manierismi», «tutte le cadenze obbligate che regolavano la scrittura dei poeti» di trent’anni prima: cioè di chi, come Vittorio Sereni, sembrava costeggiare da vicino certe linee ermetiche – in Frontiera – e chi, come Alfonso Gatto, della stessa grammatica ermetica poneva alcune indispensabili premesse. Sereni, già con l’altissimo Diario d’Algeria (1947) e poi naturalmente con Gli strumenti umani (1965) prenderà tuttavia una strada molto diversa, e destinata a segnare originalmente e a fondo la poesia italiana del secondo Novecento. Gatto sembra invece – pur con tutte le oscillazioni della seconda fase della sua parabola – restare soprattutto legato, almeno fra i suoi lettori più affezionati, a quelle prime prove. Un poeta certamente attento a Gatto come Andrea Zanzotto, vent’anni dopo la tragica scomparsa del poeta di Salerno – avvenuta in un incidente stradale, nel 1976 – richiamava, non a caso, anzitutto Morto ai paesi (1937) quale sua opera «basilare», e parlava di un progressivo avanzare e crescere della sua poesia sempre radicata nella «stessa inevitabilità di chiamata»: calcando molto, dunque sulla autenticità della sua vocazione lirica, molto più che sulla «cadenza obbligata» di pasoliniana memoria. Interessante che invece Pier Vincenzo Mengaldo – il Mengaldo antologista dei Poeti italiani del Novecento (1978) – individuasse nel Gatto del dopoguerra una maggiore sicurezza di stile, rispetto all’acerbità delle prime raccolte, e che segnalasse però anche l’incontro costante, o meglio il «conflitto mai risolto del tutto fra volontarismo tecnico-intellettuale e “dono”»: insomma fra naturalezza-ispirazione e, d’altra parte, mestiere.
Se la presenza nell’antologia di Mengaldo resta – oltre a una non rada serie di convegni e omaggi, specie nell’ultimo quindicennio – uno degli ultimi riconoscimenti critici di peso attribuiti a Gatto, ora – dopo la pubblicazione delle note e degli aforismi, riuniti pochi mesi fa da Aragno nei Pensieri – una nuova occasione di ridiscutere il ruolo e i risultati del poeta di Salerno la fornisce l’uscita della sua opera in versi – Tutte le poesie (pp. 812, € 26,00) – che Mondadori inserisce nella collana «Oscar Baobab». Forse anche l’idea di sostituire la suggestiva Natura morta con limoni di Felice Casorati – che campeggiava sulla copertina del vecchio «Oscar», più immediatamente facile da associare al Gatto classicamente, canonicamente ermetico, al clima entre deux guerres – e di affidare la bella copertina del volume all’Alfabeto artistico di Ivan Tresoldi – poeta e artista di strada milanese non ancora quarantenne – può avere la funzione o almeno l’effetto, anche involontario, di «avvicinare» Gatto, di riportarlo in qualche modo «fra noi» (anche se il formato, fortemente espanso e adatto comunque a far risaltare l’oggetto-libro, non è certo da bisaccia).
La riproposta è peraltro arricchita da alcuni elementi di novità: mentre si conferma la medesima e ampia introduzione di Silvio Ramat, il volume ospita anche una ventina di testi inediti, fra cui spiccano alcune poesie-ritratto o omaggi ad altri poeti, scrittori e artisti (Landolfi, Moravia, Bertolucci, e soprattutto Montale: «A non sapere, a non volere, quale / notizia può sorprenderci, che il male / di vivere non abbia fatta sua? Così fui solo a dirmi; vai, Montale, / con questa morte finalmente tua»; e insieme a questi, ecco una manciata di versi proprio per Pasolini, a rinforzare il già fortunatissimo topos della poesia-lamento per la sua morte).
In certo senso anche più suggestiva di queste pur interessanti addizioni è forse, per il lettore di Gatto, l’aggiunta delle «poesie fiabe rime ballate per i bambini d’ogni età» del Vaporetto, del 1963. Le risonanze e gli echi dell’età infantile sono del resto un tema decisamente pervasivo per Gatto – sin dall’inizio della sua esperienza di scrittura – e che si insinua spesso, e perlopiù con l’ammissione esplicita del soggetto, con un sapore di inevitabilità, nelle vicende del poeta da adulto. Già in Isola (1929-’32) il titolo di uno dei primi testi è proprio «Infanzia». Ma l’età magica appare subito striata d’altro, di inquietudine e malinconici presagi, se il «bambino invecchiato» – sulla falsariga del «fanciullo invecchiato» degli Ossi di seppia montaliani, ma come intenerendolo – è ritratto nell’abituale gesto di andare «a trovare i suoi morti / rinchiusi in armadi sconnessi»: ecco fermato, nel giro brevissimo di due versi, il cortocircuito costante, in Gatto, tra infanzia, morte e dimensione onirico-allucinatoria, che dà forma a scatti analogici per cui si è potuto parlare di un suo surrealismo. Così, se si attraversano ora i versi del Vaporetto, è probabilmente inevitabile sentir affiorare, dietro la superficie levigatissima delle rime e dietro i grumi più rilevati delle immagini, lo stesso e pur attenuatissimo senso di vuoto che offre il Gatto «maggiore». Basti leggere due stanze della «Filastrocca», a partire dal bellissimo attacco: «Avete visto che tutto è perfetto / nel mondo come un bacio, / la casa col suo tetto / il bimbo col suo letto / il topo col suo cacio?». Ma la chiusa ribalta, o almeno incrina, la compatta perfezione dell’inizio: «Continuate or voi la filastrocca. / Fanciulli ora vi tocca / spiegar la vela al mare, / mettervi in cammino / e forse non trovare / dove la luna e il sole / s’addormono vicino». La chiave finale è quella di una appena sussurrata mancanza. Difficile dunque resistere alla tentazione di vedere, anche nei versi più innocui e cantabili, la ferita dell’adulto.
Conferme se ne trovano – oltre che nelle poesie di Morto ai paesi, con una morte che allunga la propria ombra anche sugli elementi più vitali, come il mare, o sul ricordo – nei brevi paragrafi di riflessione sulla poesia, che sono pure allegati al volume. Qui, in sincronia con tanti esempi della grande lirica moderna, chi scrive versi è semplicemente colui che «nulla possiede che non abbia già amato e perduto». E la poesia, annota ancora Gatto, porta «con sé per il poeta l’incapacità di imparare a vivere». È insomma il luogo di una convivenza interminabile fra il bambino e l’adulto, su scia evidentemente leopardiana e poi pascoliana, come dimostra anche il continuo, ossessivo ricorrere delle figure del suo ‘romanzo familiare’ – la madre, certo, ma anche il padre, che proprio con la morte può in certo modo sovrapporsi alla figura materna, dando forma a una sorta di unico ‘mito di origine’ – nei suoi versi. «Il poeta – si legge nel congedo autoriale all’edizione del 1960 delle Poesie – manca a tutte le occasioni, anche se insiste nel cercarle»: come insistentemente cercata sarà sempre, da Gatto, la maternità protettiva della propria stessa voce e del proprio paesaggio, la pervicace «pazienza d’essere l’uguale / morto che canta ai suoi paesi».

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