Il dibattito in corso – alla luce anche della decisione di questi giorni della magistratura di Taranto di sequestrare l’altoforno 2 – , con relativo corollario di minacce di chiusura delle attività, sulla «immunità» di ArcelorMittal appare un vero e proprio balletto ove ciascuna delle parti ha «fantasmi negli armadi» e cerca di ottenere un qualche miglioramento delle rispettive posizioni.
Va innanzitutto detto che le «immunità» sono due.

VI È QUELLA introdotta con il D.Lgs 3.12.2012 n. 207 quando, pochi mesi dopo la revisione dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) per l’area a caldo, venivano sequestrati degli impianti dalla magistratura. Quel primo decreto Salva Ilva (come i seguenti) introduceva una immunità per «scavalcare» i vincoli dovuti all’azione della Procura nei confronti dei Riva e per evitare che i commissari venissero coinvolti. In sostanza, si sospendevano gli effetti di quel sequestro relativo a uno degli altoforni (e di quello successivo dei relativi prodotti) in nome della attuazione dell’Aia, ovvero delle misure di miglioramento ambientale (da attuare entro il 23.08.2017). I successivi provvedimenti hanno allungato il periodo della immunità congiuntamente al rinvio della attuazione degli interventi. Con l’ultimo decreto Salva Ilva (DPCM 29.09.2017) tale immunità di fatto, per la parte dell’area a caldo, viene ulteriormente procrastinata al 23.08.2023.

LA «SECONDA» immunità è contenuta nel decimo decreto Salva Ilva (Dl 9.06.2016) dove, in nome dell’ennesima revisione degli interventi di «ambientalizzazione», si affermava che «le condotte poste in essere per l’attuazione dell’Aia e delle altre norme ambientali non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o dell’acquirente». L’ultimo accordo ha esteso ad ArcelorMittal (quale acquirente) tale «benefit».
Sulla incostituzionalità di questa forma di immunità (questa propriamente definibile «impunità») rammentiamo le pregnanti analisi dell’avvocato Stefano Palmisano (comparse anche su Medicina Democratica n. 227/230 Maggio/Dicembre 2016). La questione sarà oggetto di sentenza della Corte Costituzionale entro ottobre.
Quello che appare particolarmente odioso del «combinato disposto» di queste due immunità è la pretesa che le stesse si estendano a ogni azione della nuova proprietà.

È INFATTI pacifico che se una attività viene autorizzata (Aia) l’atto contiene le condizioni anche per il suo prosieguo fino all’adeguamento alle prescrizioni. Non occorre nessuna immunità se il gestore attua quanto prescritto nella autorizzazione (interventi di adeguamento e corretta attività gestionale) e, nel frattempo, rispetta tutte le normative applicabili. Altrettanto pacifico è che ArcelorMittal non può essere chiamata in giudizio per atti od omissioni che hanno determinato violazioni penali o amministrative precedenti alla acquisizione degli impianti.
Per dirla in modo semplificato: ArcelorMittal non può essere chiamata in giudizio per mesoteliomi professionali diagnosticati prima della acquisizione ma può essere chiamata in giudizio, come qualunque altra impresa, se continua a esporre i lavoratori all’amianto senza attuare interventi di protezione (in primis la bonifica) dovute per legge, come pure in caso di infortunio sul lavoro dovuto a carenze delle misure antinfortunistiche o di eventi incidentali con effetti sui lavoratori e/o sull’ambiente esterno.

NON HA SENSO né esiste nella legislazione nazionale ed europea una immunità che «preservi» una azienda (qualunque azienda) in caso di comprovato inquinamento ambientale se non come esplicita eccezione nel caso della ex Ilva.
È infatti pacifico che qualunque esercente di una attività che possa danneggiare l’ambiente è responsabile per le stesse. ArcelorMittal è responsabile per quanto ha fatto o non ha fatto dalla presa in carico dell’azienda e dalla voltura della Aia, non può essere chiamata per eventi precedenti, della gestione Riva e/o commissariale.

Il contenzioso in atto mostra la «coda di paglia» di entrambi gli attori.
Se ArcelorMittal sta effettivamente attuando, nei (lunghissimi) tempi previsti, quanto previsto dalla Aia (tardiva, carente e così discutibile che ne è stata disposta la revisione) non si vede quali timori debbano avere i suoi dirigenti. Non si deve far altro che gestire l’impianto in modo corretto, conformemente alle norme vigenti che si applicano nel resto d’Italia per tutti i soggetti industriali. La minaccia di ArcelorMittal significa che ha «qualcosa» da farsi «perdonare»?

IL GOVERNO ha una sua propria coda di paglia per non aver azzerato uno dei «peccati originali» del Salva Ilva quando ne aveva l’occasione, al momento dell’accordo per la cessione; deve inoltre cercare di occultare l’inadeguatezza degli interventi di controllo (anche nell’ultimo anno) come pure la condanna della Corte di Giustizia europea del 24.01.2019 che ha concluso «che le autorità nazionali non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire l’effettiva tutela del diritto delle persone interessate al rispetto della loro vita privata».
E tra le misure non adottate (o adottate con uno scopo opposto) vi è quello relativo alla «seconda» immunità.

QUESTO BALLETTO svela che la dicotomia reale non è tra lavoro e ambiente ma tra profitto ad ogni costo («bene» riconosciuto e considerato prevalente dai governi che si sono succeduti finora) da un lato e salute/sicurezza dei lavoratori e delle popolazioni esposte dall’altro.
La contestuale richiesta di messa in Cig di ben 1.400 lavoratori ricorda la verità che abbiamo sempre sostenuto: non esiste un posto di lavoro certo quando lo stesso si basa sull’insicurezza per i lavoratori e l’inquinamento dell’ambiente.

*Tecnico della sicurezza, Presidente di Medicina Democratica