Le bandiere rosse del sindacato davanti a Ikea non si erano mai viste: deve essere successo qualcosa di grosso, se l’oasi scandinava dove tutto si monta e si smonta con la massima armonia è arrivata allo sciopero. E in effetti i 6 mila dipendenti dei 21 ipermercati italiani dell’arredo low cost sono arrivati al limite dopo che l’azienda ha improvvisamente deciso di disdettare l’integrativo: ieri la protesta indetta da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil ha visto adesioni dal 60% al 95%, con il relativo rallentamento delle vendite.

A Genova il negozio è rimasto chiuso, a Salerno le casse si sono bloccate a lungo, e anche a Bologna i servizi sono stati erogati a singhiozzo visto che a lavorare erano rimasti soltanto i manager. Ma i disagi si sono sentiti in tutta Italia: “Ingorghi, file, lunghe attese. Postazioni vuote, diversi bar e ristoranti chiusi nella giornata di massima affluenza delle famiglie, il sabato – spiega Giuliana Mesina, segretaria nazionale Filcams, dal presidio di Firenze – A quanto ci risulta, però, alla fine l’azienda non ha fatto ricorso agli interinali per sostituire chi scioperava”.

Già l’anno scorso, insieme ad altre associate a Federdistribuzione – Coin, Carrefour, Auchan, Esselunga – Ikea era uscita dal contratto nazionale di Confcommercio, con il risultato che si è già perso l’ultimo rinnovo siglato e i relativi aumenti. Ma non è bastato, perché poco dopo l’apertura del tavolo per l’integrativo, la settimana scorsa di punto in bianco il colosso svedese ha deciso di buttare all’aria anche l’integrativo, disdettandolo unilateralmente. “Una chiara spada di Damocle per farci accettare di firmarne uno nuovo, con tagli lineari pesantissimi sui salari, ma noi non ci stiamo e abbiamo reagito con lo sciopero”, spiega la sindacalista della Cgil.

Esigenze legate al “mutato contesto economico”, spiega la multinazionale, che certamente ha visto calare le vendite a causa della crisi, scenario che il sindacato non si sente di negare: “La crisi c’è stata – ammette Mesina – ma Ikea resta un’azienda sana e non ha un euro di rosso. Questo grazie a una saggia gestione degli investimenti da parte della dirigenza, ma anche per le scelte fatte dal sindacato, con diversi accordi che hanno ritardato la maturazione delle indennità. Contrattiamo con Ikea da 25 anni, le relazioni sono sempre state buone, e non accettiamo di venire bollati come ‘irresponsabili’ per aver deciso lo sciopero. Adesso siamo disponibili a lavorare su flessibilità e produttività, ma quello che ci viene richiesto, il taglio lineare dei salari, è inaccettabile”.

“I diritti non si smontano”, recita lo slogan sui cartelli delle tute giallo-blu. Ed effettivamente Ikea si è messa di buzzo buono per “smontare” veri e propri pezzi di busta paga che una volta persi non si potrebbero recuperare più: “Innanzitutto minacciano il salario aziendale consolidato, maturato per anzianità, che vorrebbero trasformare in variabile – spiegano alla Filcams – Si tratta di almeno 70-80 euro per un full time”.

C’è poi il capitolo delle maggiorazioni domenicali, che vista l’alta incidenza del part time (il 70% dei dipendenti, 24 ore medie settimanali) rappresentano una vera e propria bombola d’ossigeno per stipendi al limite della sopravvivenza e in molti casi sotto gli 800 euro: “Le maggiorazioni si attestano tra il 40% e il 70%, con punte isolate del 130% – dice la Filcams – Se le decurtano è una rovina per tanti”.

Un incontro con l’azienda è già fissato per il 12, un altro per il 25: il problema, a questo punto, è capire quanto ci sia di “tattico” nell’irrigidimento di Ikea, o se davvero non sia mutato in modo definitivo l’approccio di una multinazionale che fino a ieri appariva assolutamente friendly verso i suoi dipendenti. È cambiato anche il contesto politico, oltre a quello economico: il capofila della “disintermediazione” e del muso duro contro il sindacato, Sergio Marchionne, ha incassato un bel nulla osta da parte di tutti gli ultimi governi, compreso quello guidato da Matteo Renzi.

“Il governo ci sta ignorando del tutto, trascura l’intero settore della grande distribuzione, per cui non esiste una strategia né una idea di sviluppo – conclude Mesina, della Filcams Cgil – Basti pensare ai 1426 licenziamenti annunciati da Auchan, alle recenti tensioni in Carrefour. Le aperture h24 della liberalizzazione targata Monti, a cui ci siamo opposti fin dall’inizio, non hanno portato un posto di lavoro in più. Ora vorremmo capire se la politica italiana ha qualche idea sul futuro dei milioni di lavoratori dei servizi, o se ha deciso di lasciarci esposti alla deregulation totale”.