Settant’anni fa accadde qualcosa di strano a New York City, Manhattan, al 1678 della Broadway, fra la 52 e la 53 West: è un sabato sera di metà ottobre 1951 al Birdland, suona, come accade di sovente, Charlie Parker, ormai incoronato re del bebop e stimato persino da intellettuali come Jean-Paul Sartre o Jack Kerouac. Il jazz club appartiene ai fratelli Morris e Irving Levy, autentici boss della musica, proprietari di negozi di dischi e della label Roulette Records, e forse immischiati nella malavita: amano comunque il nuovo sound e battezzano «la terra di Bird» una cantina ampia ma un po’ tetra in onore del loro idolo Charlie «Bird» Parker, così soprannominato per gli assolo al sax alto che paiono spiccare il volo come un volatile dalle grandi ali.
Se Parker mette d’accordo tutti, bianchi e neri, sulla qualità della propria musica, al contempo il Birdland è uno rari posti in cui si ignorano le leggi assurde della segregazione razziale, al punto che ad ascoltare il bopper, quel sabato notte, si mescola, tra giovani hipster, facce equivoche, radical afroamericani, un tipo piccolo e minuto, dall’aria un po’ snob, Igor Stravinsky, all’epoca il massimo compositore vivente, lo spauracchio di giornalisti, colleghi, artisti per l’immediatezza con cui trancia giudizi sul mondo (e soprattutto sui protagonisti) della cultura passata e presente: «Vivaldi ha sempre scritto, quattrocento volte, lo stesso concerto», tanto per citare una frase ormai divenuta proverbiale contro il Maestro del barocco veneziano. Qualcosa di speciale sta per accadere in quel buio, fumoso, ma rinomato localaccio.

PROGETTI
Prima però, occorre ricordare che, già da cinque-sei anni, quando, in America, si parla dell’interesse verso il jazz da parte dei musicisti colti europei, viene subito in mente l’Ebony Concerto (1945) scritto proprio da Stravinsky durante il soggiorno californiano, concepito appositamente per la big band di Woody Herman, benché l’esecuzione discografica più celebre resti quella di Benny Goodman (anche’egli, come il collega, insigne clarinettista bianco). Stravinsky ama il jazz (e la musica afroamericana in genere) forse sin dalle origini, tant’è che tra le brevi opere pianistiche risultano pure un ragtime e un tango scritti forse «in onore» di musiche alla moda. Anche il compositore russo è amato da jazzisti non solo oggi, ma in epoche non sospette, già negli anni Quaranta, al punto che ogni volta che qualche jazzologo cerca di narrare la vita di Charlie Parker incappa inevitabilmente nella storia del desiderio di Parker di incontrare Stravinsky medesimo per lavorare a un progetto discografico comune.
Non si sa se si tratti di una leggenda metropolitana, giacché l’album non viene mai realizzato, benché Bird registri per sé due Charlie Parker with Strings (1949-50, poi raccolti in un unico cd nel 1995) da lui ritenuti i propri album migliori, dove interagisce con un’orchestra d’archi, risuonando alcuni cavalli di battaglia con un sottofondo pseudosinfonico più simile agli score hollywoodiani che a un moderno sinfonismo. Semmai è da rilevare l’interesse del compositore avanguardista Edgar Varèse – all’epoca assai più sperimentale di Stravinsky – che esprime pubblicamente il desiderio di lavorare a nuove musiche con il bopper sassofonista: un progetto, parecchie volte sollecitato ma che non andrà mai in porto a causa della morte prematura del jazzman nel 1955.
A parte ciò, ci sono ancora molte cose da dire sui «rapporti» tra Parker e Stravinsky che idealmente mettono a confronto due mondi – l’America e l’Europa – magari nel tentativo idealistico di creare un unicum che avrebbe costituito una sorta di sound euroamericano. Non è la prima volta che accade: a essere precisi musica jazz e musica classica vanno quasi a braccetto fin dal momento in cui i ritmi sincopati irrompono sulla scena internazionale, già nei primi anni Venti del XX secolo, e forse il caso Parker/Stravinsky arriva simbolicamente a concludere una stagione assai fertile in cui i compositori dotti attingono a piene mani dalle risorse espressive del sound improvvisato americano. E proprio per tali motivi c’è un episodio che vale la pena ricordare, grazie al post di un grande jazzologo italiano.

TUTTO ESAURITO
Intanto quel sabato sera del 1951 il Birdland ha il «tutto esaurito», gente in piedi, nessun tavolo libero, tranne uno che resta vuoto per tutto il primo set, affidato al trio del pianista Billy Taylor; nell’intervallo il cartello «riservato» viene tolto dal cameriere nel momento in cui entra un tipo magro, vestito elegante, naso aquilino, baffetti sottili, passo sicuro e una scorta di tre uomini e una signora; e sono in molti a riconoscere in quell’anziano signore dall’aria austera il grande Stravinsky, ormai di casa negli States, fuggito da Parigi da quando è scoppiata la guerra in Europa.
Il set deve ancora iniziare, Red Rodney – trombettista del Charlie Parker Quintet, unico bianco della band, fatto passare per un albino «negro» onde poter suonare in altre contee razziste – riconosciuto il flemmatico avventore, corre da Parker in camerino a dirgli chi c’è. Senza agitarsi, come fa di solito di fronte alla minima difficoltà, Bird dice al frontman e alla ritmica (Walter Bishop Jr., Teddy Kotick, Roy Haynes) di attaccare subito con la velocissima Ko-Ko, e il quintetto stacca a freddo un tempo furioso sul brano-chiave del bop stesso; al secondo chorus di uno strepitoso assolo Parker inserisce la frase iniziale de L’uccello di fuoco, capolavoro stravinskiano di quarantuno anni prima; e l’inatteso ospite pare che, stando a testimonianze oculari, abbia innalzato la coppa di champagne in segno di profondo ringraziamento.

SENZA PAROLE
Ma sembra altresì che quella notte al Birdland sia passata agli annali della storia del jazz per via di molti altri particolari, quali ad esempio l’avvicinarsi, di colpo, di Parker al tavolo di Stravinsky quale gesto di omaggio, mentre sta improvvisando sul celeberrimo standard All the Things You Are. Tuttavia i due alla fine del set non si scambiano neppure una parola, forse a causa della riservatezza caratteriale di entrambi o magari del pessimo inglese del russo; non vi saranno ulteriori incontri, a parte quello rievocato da Clint Eastwood nel film Bird (1988) quando mostra Forest Whitaker (nei panni di Bird) che bussa alla porta di casa Stravinsky, senza nulla ottenere.
In realtà il tutto – ma fin da subito – assume i tratti inquietanti della leggenda metropolitana e pare che Bird insista poi con un gruppetto di amici e musicisti per andare a trovare il compositore russo, dopo una performance, con tanto di jam session, al Camarillo, locale nei pressi di Los Angeles; per arrivare alla villa di Stravinsky a Beverly Hills il tragitto in automobile è abbastanza breve. Giunto sul posto, trovato facilmente l’indirizzo, Parker è titubante a suonare il campanello, poiché nota che abitazione e giardino sono al buio e in silenzio. Non sa spiegarsi il perché di tale «assenza», finché uno dei compagni gli ricorda che sono le tre del mattino e che a quell’ora i comuni mortali (compreso il «divino» Igor) magari stanno dormendo sonni profondi.

CITAZIONI
Al di là della citofonata o meno, è certo il fatto che Charlie Parker vanti, come già detto, grandissima ammirazione per il musicista russo, che omaggia più di una volta inserendo tra gli assolo brevi citazioni dai balletti e da altre partiture. Inoltre esistono ulteriori testimonianze fonografiche, quali il disco live del 1952 al Kavakos Grill di Washington, dove entro lo standard Fine and Dandy si avverte una frase da Petruska; già prima nell’esecuzione di Salt Peanuts alla Salle Pleyel di Parigi nel 1949 è percepibile un inserto dalla Sagra della primavera. Stravinsky ricambia l’interesse verso il jazz già sei anni prima con il citato Ebony Concerto che nel corso del tempo, dopo Herman, vanterà favolose esecuzioni a partire da Benny Goodman (1965) per arrivare via via Pierre Boulez (1982), Simon Rattle (1987), Vladimir Ashkenazy (1992), Michael Tilson Thomas (1998) e ancora Rattle (2018).In quello stesso 1951, dopo il curioso episodio, Igor Stravinsky debutta al Teatro La Fenice di Venezia con l’opera lirica La carriera di un libertino, che segna il culmine del personale stile neoclassico, dal quale si staccherà per interessarsi addirittura alla dodecafonia (da lui disprezzata in gioventù). Charlie Parker invece è arrestato per possesso di eroina, arresto che gli costa il ritiro, per tre mesi, della cosiddetta green card, una tessera sindacale senza cui è impossibile lavorare nei luoghi pubblici: è il triste inizio di un lento declino, fisico e mentale, per uno dei più grandi sassofonisti della storia del jazz.

FUORI I DISCHI
Facendo ancora riferimento al mancato incontro fra Parker e Stravinsky, lungo un intero decisivo trentennio dal 1919 al 1949 quando il jazz passa dal ragtime all’hot, dallo swing al bebop, esistono almeno dieci composizioni, in cui vengono coinvolti musicisti statunitensi, russi, francesi e persino un italiano.
1919 Igor Stravinsky, Piano Rag Music
Il geniale artista russo si mostra a proprio agio con melodie spigolose e ritmi lancinanti già dal balletto L’uccello di fuoco (1910). Ma è solo questione di tempo prima che l’eccentrica danza afroamericana – il ragtime del titolo – goda di un trattamento speciale da parte del musicista, con esiti positivi modernissimi: è allo stesso tempo «vero» jazz e stridente espressionismo, con senso del divertimento tanto cerebrale quanto «minaccioso».
1920 Alfredo Casella, Fox- Trot: per pianoforte a quattro mani
Come anche per i coevi Pupazzetti il compositore italiano, al ritorno da un lungo soggiorno statunitense, dove ha modo «per le strade di Harlem» di ascoltare la vera musica «negra», dal rag all’hot, ne decanta le qualità istintive, trasferendole su un piano intellettualistico molto rielaborato, forse con lo stesso atteggiamento dei Futuristi verso tutto quanto suona «esotico» o «selvaggio», da cui però sono morbosamente attratti.
1923 Darius Milhaud, La creazione del mondo
Per usare un gioco di parole, si tratta qui non di un americano a Parigi, bensì di un compositore francese negli Stati Uniti. Arrivato oltreoceano nel 1922, il futuro esponente del Groupe des Six prenderà spunto dal vero hot jazz ascoltato per le strade di Harlem, al punto da ricavarne un profondo impatto nel proprio stile musicale, almeno per quanto concerne questo balletto, tra armonie blues e ritmi incalzanti.
1924 George Gershwin, Rapsodia in blu
La partitura pianistica originaria, subito orchestrata da Fernand Grofé per l’allora «re del jazz» Paul Whiteman, si pone già allora tra gli esempi più luminosi dell’unicità stilistica gershwiniana, a cominciare dal clarinetto fino ai virtuosistici assoli di pianoforte. I tredici minuti del primo autentico crossover incapsulano alla perfezione l’animo della jazz era, tanto che diversi registi da Woody Allen a Baz Lurhmann adoperano il pezzo per accompagnare rispettivamente lo splendore della New York art déco o il festino ne Il grande Gatsby.
1925 George Antheil, A Jazz Symphony
La sinfonia jazz di questo bizzarro statunitense (con frequentazioni avanguardiste parigine) potrebbe benissimo fare da score a un cartone animato comico, grazie al libero uso spregiudicato di percussioni o all’impiego smodato di melodie pianistiche slapstick. Ma non tutto è caos cartoonista, giacché molti virtuosi assolo forniscono calma ed equilibrio durante l’intero spartito.
1926 Ernst Krenek, Jonny spielt auf
Si tratta di un’opera jazz in lingua tedesca con parole e musica del compositore austriaco, basata su un violinista hot: all’epoca famosissima, viene poi attaccata dai nazisti scomparendo dai repertori teatrali. Non solo rappresenta la libertà culturale dell’«epoca d’oro» della Repubblica di Weimar, ma soprattutto anticipa di due anni la celebrata Opera da tre soldi.
1926 Aaron Copland, Concerto per pianoforte
L’autore descrive la partitura come un blues lento con guizzo scattante: in altre parole un atteggiamento personalissimo per riflettere (e racchiuderne il senso e lo scopo) circa le due sezioni di un concerto che impressiona quale primo massimo esempio di incontro jazz-classica, in senso fusionista, con un’orbita tanto indulgente quanto raffinata.
1927 Dmitrij Šostakovic, Tahiti Trot
Violini esitanti, tromboni sfrontati e uno xilofono scintillante: sorprendentemente, nonostante il titolo esotico risulta molto più «jazzy» delle posteriori Jazz Suites: pare venga composto dopo una gara tra lui e il direttore d’orchestra Nikolai Malko, mentre i due, assieme, alla radio sentono lo standard Tea for Two, scommettendo 100 rubli che Šostakovic non sarebbe stato in grado di riorchestrare il capolavoro di Victor Yousman in meno di un’ora: ci riuscirà in circa 40 minuti.
1928 George Gershwin, Un americano a Parigi
Passeggiando tra la Parigi bohémienne, avanguardista, moderna, trasgressiva degli anni Venti, il compositore crea una sorta di poema sinfonico con l’intenzione di catturare, rielaborare, esternare immagini, colori, suoni, rumori della metropoli, giungendo addirittura a inserire i clacson dei taxi locali, onde aggiungere un po’ di autentico sentire della Ville Lumière.
1928 Kurt Weill, L’opera da tre soldi
Il ritmo europeo, il jazz americano, il teatro epico, il melodramma occidentale, il Bauhaus espressionista: è quasi tutto concentrato nel testo operistico del poeta e commediografo Bertolt Brecht e nelle musiche stranianti, quasi popolaresche per accentuare la vicenda gangsteristica. Il celebre Morirat incentrato sulla figura del cattivo Mackie Messer, tradotto in inglese come Mack the Knife, diventerà uno standard jazz a sé stante.
1930 Jacques Ibert, Divertissement
Frivolo e spensierato, il divertimento del compositore francese è elegantemente infarinato di ritmi inaspettati, accordi di pianoforte e trombe che esplodono dalla trama sonora. L’ascolto della citazione parodica della celebre Marcia nuziale di Mendelssohn resta solo una delle tante sorprese, quasi alla stregua dei richiami a brani classici nel bel mezzo di un assolo di Louis Armstrong.
1931 Maurice Ravel, Concerto per pianoforte in Sol
C’è anche un po’ del jazz in questa partitura iniziata nel 1921 ma finita solo dopo il viaggio del compositore negli Usa (1928). Ravel conosce da tempo ragtime e hot, ma solo curiosando tra i locali notturni di New York tocca con mano la realtà impiegando una cosiddetta «scala blues» nel primo dei tre movimenti, per un lavoro brillantemente incisivo, dove emergono pure melodie e ritmi dei Paesi Baschi.
1934 George Gershwin, Variazioni su I Got Rhythm
Fra le rare partiture colte dell’autore newyorkese viene oggi inserito in cartellone anche questo brano dove la sua canzone di successo I Got Rhythm dal musical Girl Crazy, viene da lui trasformata in un’impressionante suite orchestrale dentro a una simpatica varietà stilistica. Ma, nonostante le mutevoli influenze e il virtuosistico assolo di pianoforte, la melodia, orecchiabile, jazzata, è ancora facilmente riconoscibile.
1934, 1936 Dmitrij Šostakovic, Jazz Suites 1 & 2
Si sa quasi per certo che il geniale compositore di Leningrado non riesca ad ascoltare il vero hot o il nascente swing, poiché limitato, nei movimenti, da censori che lo obbligano a comporre per lo Stato. Tuttavia questa musica dolce (e sdolcinata) è un ottimo ascolto, se da essa non si pretende un ritmo swing eccitato o un’improvvisazione al pianoforte in Gershwin style. Tornata di moda e in repertorio grazie a Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick.
1944 Leonard Bernstein, Three Dance Episodes from on the Town
Catturando lo spirito di New York City, il musical On the Town racconta la storia di tre marinai americani in congedo a terra negli anni Quaranta. I tre episodi di danza catturano la spavalderia e la vivacità del genere, con un imprinting swingante che non verrà mai meno al versatile musicista ebreo (fondamentale anche quale direttore d’orchestra).
1945 Igor Stravinsky, Ebony Concerto
Composto durante il soggiorno losangelino, è l’autore medesimo a descrivere il brano come «un concerto jazz con un lento movimento blues». Viene presentato in anteprima dalla big band dell’allora giovane ma già famoso clarinettista swing Woody Herman, che a sua volta definisce un «pezzo molto delicato e molto triste». D’altronde per l’Ebony è lo stesso Stravinsky a cercare e richiedere la collaborazione attiva di Herman, un po’ come avviene tra Duke Ellington e i membri della sua orchestra.
1949 Aaron Copland, Four Piano Blues
Un’altra melodia pianistica meravigliosamente introspettiva di Copland, questa volta nella forma blues quadripartita; si tratta di una musica sincopata rilassante al suo meglio, colorata dall’occasionale accordo jazz afoso o da un accenno di una melodia blues, con un rimbalzo eccentrico finale per completare il pezzo di 8 minuti.