Igor Savickij e l’arte in salvo tra le dune
Mostre «Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto» alla Ca' Foscari Esposizioni fino all'8 settembre. La collezione comprende i capolavori dell'Avanguardia russa e Orientalis
Mostre «Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto» alla Ca' Foscari Esposizioni fino all'8 settembre. La collezione comprende i capolavori dell'Avanguardia russa e Orientalis
Fino all’8 settembre Ca’ Foscari Esposizioni accoglie la prima grande mostra che presenta, fuori dai confini dell’Uzbekistan, i capolavori pittorici provenienti dai musei statali di Tashkent e di Nukus (a cura di Giuseppe Barbieri e Silvia Burini, catalogo Electa). Situato nella repubblica autonoma del Karakalpakstan, il museo di Nukus è soprannominato il «Louvre nel deserto» ed è intitolato al suo fondatore, Igor Savickij, che vi raccolse le opere d’arte dell’Avanguardia russa che si sviluppò fino all’avvento del Realismo Socialista, ovvero fino al momento in cui l’arte diventò una estensione dello Stato. Per Stalin, l’Avanguardia era borghese ma l’arte doveva essere più facilmente comprensibile e funzionale al suo potere e per questo diede ordine di sradicarne le forme non congrue.
IN QUESTO CONTESTO, Savickij ebbe un ruolo fondamentale nel preservare le opere di una generazione di artisti. Se non ci fosse stato lui, migliaia di opere dell’Avanguardia russa e di quella Orientalis, che si sviluppa in Asia Centrale, sarebbero andata perdute. Savickij era nato in Ucraina nel 1915 da una famiglia agiata di Kiev e crebbe con una governante francese, circondato da parenti istruiti che avevano girato il mondo. I primi anni della sua vita furono felici. Con la rivoluzione e la guerra civile, le origini agiate diventarono però una maledizione. Nel 1919, il padre venne arrestato e giustiziato dai bolscevichi. Negli anni Venti quasi tutti i parenti materni emigrarono in Francia, ma la famiglia si trasferì a Mosca. Dovendo dare l’impressione di essere un bravo proletario, iniziò l’apprendistato da elettricista. La sera prendeva lezioni di disegno e pittura e nel 1941 fu ammesso all’Istituto d’arte Surikov di Mosca.
Nel 1941 la Germania entrò in guerra contro l’Unione Sovietica. Insieme a tanti altri studenti, Savickij venne evacuato a Samarcanda dove conobbe i pittori Robert Fal’k, Nicolai Uljanov e Valentin Justizki. Finita la guerra, tornò a Mosca per terminare gli studi. Nel 1950 un gruppo di archeologi guidati da Sergei Pavlovich Tolstov partì per seguire gli scavi tra le rovine dell’antica civiltà corasmica in Karakalpakstan, facendo base a Nukus. Per otto anni, il giovane Igor ebbe l’incarico di dipingere, per ore e ore, quel paesaggio sconfinato. Si innamorò del posto, delle sue genti. Nei momenti liberi andò di villaggio in villaggio a comprare ricami, tappeti, gioielli, oggetti in legno e in bronzo. Perché quella terra era ed è espressione di una tradizione artigianale ricchissima.
QUANDO GLI ARCHEOLOGI terminarono la missione, Savickij decise di restare a Nukus, dove aveva stretto amicizia con Marat Koptleuich Nurmukhamedov che istituì un dipartimento di arti applicate nell’Accademia delle Scienze dell’Uzbekistan e affidò a Savickij la metà del museo di geografia locale, affinché potesse catalogarne le opere.
Correva l’anno 1966. Savickij andava a trovare le vedove degli artisti dell’Avanguardia russa e di quella Orientalis e, poco per volta, riuscì a scoprire le opere nascoste negli anni Venti e Trenta. Arte divenuta non ufficiale, accusata di formalismo. Opere di artisti condannati al gulag, internati in manicomio. Oppure controversi o ignorati, come Alexander Nikolajev, Michail Kurzin e Nadezda Kašina. Rischiavano di scomparire, e per questo mogli, vedove, figli le affidarono a Savickij. Nukus era – ed è – una località sperduta: c’erano pochi controlli, e quando da Mosca arrivavano gli ispettori, Savickij faceva sparire le opere, le contrassegnava con la targhetta «autore ignoto», oppure nella didascalia sostituiva «gulag» con la scritta «campo di concentramento nazista». Così accadde con i disegni di Nadezda Borovaja, esposti nel 1982: ritraevano il gulag in cui aveva trascorso sette anni negli anni Trenta, ma il pieghevole indicava «scene immaginarie della vita quotidiana nei campi di concentramento nazisti».
OGGI IL MUSEO DI NUKUS è un’oasi d’arte nel deserto e vanta oltre centomila pezzi. Tra questi, il Toro dell’artista bielorusso Vasilij Lysenko: gli occhi neri assassini, le corna ornate da una ghirlanda di drappi colorati sembrano puntare dritto contro lo spettatore, danno l’impressione di un disastro imminente: i totalitarismi. E poi il dipinto di Michail Kurzin che raffigura i pelmeni, un piatto tipico della cucina russa: l’artista era appena uscito dal carcere, era stato in esilio, aveva patito la fame. Erano dipinti osteggiati dal regime sovietico, e neppure esisteva un libero mercato dell’arte mercato. Il risultato è che nel Museo di Nukus è possibile vedere l’opera completa di pittori dell’Avanguardia sovietica, ovvero sia le loro sperimentazioni sia i capolavori. La mostra Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto a Ca’ Foscari Esposizioni li riporta, grazie a Savickij, alla nostra attenzione.
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