Il dialogo tra un  padre e un figlio scorre silenzioso sullo specchio  d’acqua di un lago, custode di tanti incontri. Attraverso l’utilizzo di una camera fissa Mini Dv, il regista Ignazio Fabio Mazzola restituisce in G, opera in concorso alla 58° edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, la memoria di un rapporto che si traduce in un lavoro contemplativo, dove l’assenza dei corpi permette allo sguardo dello spettatore di viaggiare sulle increspature e i flussi d’acqua innescando suggestioni pittoriche fino a raggiungere i movimenti dell’anima.

Com’è nata l’idea e l’esigenza di creare questo dialogo?
È un dialogo che continua ancora oggi e in modo differente. Questo film proviene da un gruppo di scene che ho girato nel 2016 e già c’era l’idea di soffermarmi su quei luoghi che avevo condiviso con mio padre. Il lago di San Giuliano in Basilicata era uno dei  luoghi che andavamo a trovare in moto. Questo, come altri, è un dialogo che mi accompagnerà per tutta la vita.

Nei tuoi film precedenti, infatti, sono presenti molti elementi biografici che mescoli a elementi architettonici.
Oltre agli elementi autobiografici, il mio lavoro include gli studi sulla pittura e architettura. Queste passioni sono nate grazie a  mio padre, la radice di tutto. Quando ero piccolo vedevo la mia casa trasformarsi: il bagno in una camera oscura, mentre sul tavolo del soggiorno prendevano vita sculture in cartoncino che mio padre costruiva e fotografava. In alcuni giorni  andavamo in pinacoteca e le prime immagini della città le ho viste insieme a lui. Ci sono altre figure fondamentali come il professore di Storia dell’architettura che, negli anni in cui frequentavo l’università, conduceva una ricerca sul tema dell’anonimato in architettura, una linea sotterranea del ‘900 che vede alcuni architetti fare a meno della loro riconoscibilità. Quando si è conclusa questa parentesi universitaria ho portato il tema dell’anonimato all’interno del cinema, dove evito la cifra stilistica e cerco di creare progetti diversi tra loro. C’è un passaggio di una poesia di Pessoa che sintetizza e raccoglie un po’ il senso del mio lavoro: diversi sono i modi di Dio, diversi modi sono io.

I tuoi film sono caratterizzati dalla scelta di pochissimi elementi, come per esempio i titoli in cui utilizzi singole lettere o segni grafici, perché questa scelta?
In qualche modo cerco di catturare l’essenza delle cose come in alcuni componimenti poetici, per esempio gli Haiku giapponesi. Cerco sempre di mettere a fuoco nel miglior modo possibile gli elementi che mi interessano quindi evito quei fronzoli, quelle decorazioni e ornamenti che in qualche modo possono solo riempire l’ego dell’autore. Per quanto riguarda i titoli è un’operazione che si è sviluppata a partire dal mio primo film Piano Pi_no, dove c’è la sottrazione di un elemento che viene meno. Inizialmente ho pensato a una sorte di archivio come gli armadi metallici che si trovavano una volta negli uffici. Da questa idea di archivio e immediatezza sono venuti fuori questi titoli che sono anche un gioco come per il film LT che sta per “Linea di terra”, ma anche come “Limite”. 

Como lavori hai tuoi film, come avviene il processo creativo?
Tutto parte da un’idea che cerco di mantenere viva nel corso del tempo, quindi evito di fissarla su carta perché può rappresentare un limite. Un’idea se rimane nella mente può trasformarsi nel tempo come uno scoglio trasformato dall’acqua e dal vento. Questo mi da la possibilità di svilupparla e  aprirla ad altre suggestioni.  Un’altra cosa straordinaria per me è pensare alla ripresa e al montaggio come due binari paralleli che s’incontrano, forse, in un punto all’infinito. C’è un doppio dialogo che alla fine s’incontra e si allontana; per me realizzare un film è un’avventura. L’immagine inoltre non deve essere impeccabile, non mi è mai interessato anche perché l’immagine in l’alta definizione secondo me ci allontana da quello che stiamo vedendo.

Gli elementi nei miei film affiorano senza una mia particolare richiesta, senza forzare nulla nel voler parlare di certi autori o di certe tendenze, l’opera è aperta è ognuno interpreta quello che vede, non c’è bisogno del mio commento; se poi arrivano delle conferme da par del pubblico sul senso dei miei lavori, per me è sicuramente il massimo.