Il trentennale della caduta del Muro ha avuto il pregio non solo di richiamare l’attenzione sulla sostanza geo-politica di un evento, che, al netto delle propagande, si spoglia delle retoriche della «global democracy» o della superiorità dei valori occidentali, ma altresì sulla fascinazione e influenza che Berlino, luogo di confine-– non solo territoriale – e di libertà, ha esercitato sulla produzione culturale di una generazione di artisti che va dalla fine degli anni Settanta fino alla riunificazione delle «due germanie».

155 HAUPTSTRASSE
Su tutte conserva intatta la sua importanza l’esperienza discografica di Iggy Pop e David Bowie riferibile agli anni in cui i due vissero a Berlino, tra il 1976 al 1978 – condividendo gli spazi di un appartamento localizzato al numero 155 di Hauptstrasse, in un quartiere periferico della città decadente e fascinosa -, quale risultato di un sodalizio artistico e creativo che si rivelerà fondamentale e seminale per la storia del rock e per l’immaginario di una (contro)cultura che ne trasse ispirazione e contenuto.
Gli anni berlinesi di Iggy Pop – in fuga dagli esiti di una esistenza ormai del tutto estrema e autodistruttiva, al seguito di David Bowie, che riesce a «trascinarlo» con sé durante il tour di Station to Station, nel 1976 – trovano suggestiva e intima testimonianza negli scatti di Esther Friedman, fotografa tedesca, che nel 1977 avvia una relazione sentimentale con l’istrionico ex-Stooges, che sono esposti sino all’8 dicembre alla Ono arte contemporanea – galleria fotografica di Bologna (via Santa Margherita, 10), in occasione della mostra Iggy Pop The Passenger: Fotografie di Esther Friedman.
Il percorso per immagini – 25 foto, per lo più in bianco e nero, e un documento visivo sullo scenario urbano della Berlino Est e Ovest – ci restituisce le atmosfere di una città cupa e rarefatta, che fa da sfondo – e occasione – alla rinascita esistenziale e creativa dei due Dum Dum Boys – già titolo (autoreferenziale) di una delle tracce dell’album The Idiot di Iggy Pop (1977), di cui David Bowie è produttore e arrangiatore.
Esther coglie un Iggy trentenne, dallo sguardo febbrile, dal fisico asciutto, dall’espressività marcata che connota, provocatoria e urgente, il suo volto; e l’irripetibilità e la tensione dello scambio creativo tra due personalità artistiche di diversificata ma pari genialità. Immagini, quelle della mostra, che restituiscono una Berlino plumbea, struggente, nelle sue prospettive urbane prive di fasto, nella sua architettura che parla della contraddizione di un luogo di frontiera.
Friedman, in occasione di una intervista rilasciataci nei giorni scorsi, ci riporta l’energia, le emozioni e gli antefatti di quanto documentato: «Ero innamorata, Iggy era semplicemente meraviglioso; tutto in quei giorni sembrava possibile: sentivo che c’era qualcosa di unico nell’aria di quel loft berlinese».
Sono mesi eccitanti: i due girano per locali – tra tutti lo storico centro sociale SO36, aperto nel 1976, divenuto poi Club e considerato il punto di riferimento della scena punk rock di Berlino -, ascoltano musica, e, soprattutto compongono capolavori come Heroes, Low e Lodger (David Bowie), The Idiot e Lust for Life (Iggy).
Non a caso Bowie in Lodger inserisce Red Money, cover di Sister Midnight di Iggy in Lust for Life, a ulteriore testimonianza di un’unicità del periodo e del loro sodalizio berlinese.

VIBRAZIONI PUNK
Allo stesso modo le copertine di Lust for Life e Heroes mostrano i due protagonisti in pose molto simili, entrambe ispirate al quadro Roquairol di Erich Heckel (pittore impressionista tedesco dei primi del Novecento, considerato dal nazismo «artista degenerato»), in un concept grafico del tutto omologo. L’approccio creativo e musicale dei due non si connota del punk o della new wave, ne capta le vibrazioni e le sollecitazioni, le traduce in un sound nuovo, personale, unico, che deve molto al krautrock, e che è distante e più raffinato rispetto alle sonorità «grezze», crude e urgenti del punk.
Iggy e Bowie assorbono la cultura berlinese, visitano musei, leggono, si rifanno alle avanguardie artistiche del primo Novecento, a opere cinematografiche, alla cultura pop, nella sua più larga accezione, creando un precedente sonoro-culturale irripetibile e irripetuto.
Nonostante l’unicità di quel periodo, ci rivela ancora Esther, l’interesse per quelle sue foto è emerso solo in tempi recenti: «Non avrei mai pensato che ci sarebbe stato così tanto interesse, fino al 2013, quando l’editore di Zeit Magazin lo venne a sapere. Era così sbalordito che ha messo Iggy sulla copertina del giornale e abbiamo vinto il Lead Award in Gold per la migliore serie di ritratti dell’anno. Quindi l’apprezzamento anche da parte della galleria Ono per questo lavoro mi rende molto felice».

SPERIMENTAZIONE
Manuel Agnelli, protagonista del documentario Berlino Est Ovest, attualmente in onda su Sky Arte, a firma della regista Enza Negroni (prod. Sonne Film e Edenrock,), ci conferma il valore unico della produzione discografica di Iggy Pop e David Bowie riferibile agli anni del loro lungo soggiorno berlinese.
Manuel raggiunge Berlino alla fine degli anni Ottanta: «C’era in me una forte fascinazione verso Berlino nata prima punk e che quindi aveva incluso anche Iggy Pop e David Bowie che lì avevano realizzato i dischi più belli e interessanti della loro carriera. Sembrava che Berlino “battezzasse” a quei tempi dischi di un certo tipo». Proseguendo nel racconto della sua prima esperienza berlinese, Manuel non fa che sostenere la rappresentazione di una città – quale chiaramente desumibile dalle immagini della mostra bolognese -, che in quel periodo è in grado di accogliere e sollecitare ogni tipo di sperimentazione, assurgendo a luogo ideale per ogni avanguardia, culturale e sociale. «Prima di arrivare a Berlino, tutti noi, di una certa generazione, ci eravamo già arrivati con la fantasia, con la testa. Berlino era una sorta di Eden per la musica, ma non solo. Noi la pensavamo, e per un po’ lo era stata, una zona franca, anche a livello sociale, dove potevi essere quello che volevi. C’erano in quel periodo un sacco di esperimenti di autogestione, centri sociali, case occupate. Del resto Berlino non era la città ambita dalla gente “normale”: era una città problematica, ma a noi piaceva questa cosa! Avevamo tutti un po’ sottovalutato il fatto che Berlino fosse in qualche modo la vetrina dell’occidente, al quale conveniva l’esistenza di un posto così, divertente, ma allo stesso tempo pericoloso e quindi affascinante, che però, in realtà, era il risultato di una situazione artificiale. In condizioni normali una Berlino così non sarebbe mai esistita. Noi invece la consideravamo come la realizzazione dei sogni del punk: di una società alternativa possibile, di un modo alternativo di vivere, anche nei rapporti personali; e questa cosa ci attirava prima ancora della scena musicale. Berlino è stata quindi per me più un punto di arrivo che di partenza. È stato il compimento dei miei sogni, e ripeto, non solo artistici, ma di vita, di vita sociale».
A distanza di anni non si affievolisce l’interesse verso una vicenda esistenziale e artistica capace di stigmatizzare nella storia del rock il respiro e le energie di una Berlino che, in quel periodo, è in grado di accogliere e sintetizzare realtà antitetiche e contrapposte, e di restituire impulsi creativi e culturali che si alimentarono di quella tensione, di quella frizione e di quell’allarme, dando vita ad una stagione estetico-culturale irripetibile.