La fotografia riproduce un’iscrizione quattrocentesca sulla testata di Ponte Sisto, a Roma: «ad utilitatem pro peregrinaeque multitudinis ad iubileum venturae pontem hunc…». Pontem hunc… e dopo? Il seguito si legge con un po’ di sforzo. La targa è infatti coperta, anzi attraversata, da un’iscrizione di altro genere ed epoca: «aborto libero». Questa scritta più recente sarà stata cancellata da tempo, ma era ben visibile nella foto, scattata nel 1977 ed entrata nel corredo iconografico di un libro importante e appassionante: Armando Petrucci, La scrittura Ideologia e rappresentazione, da poco riedito dalla Luiss University Press (pp. 383, euro 28,00), a cura di Antonio Ciaralli con la collaborazione di Attilio Bartoli Langeli e Marco Palma, con un’introduzione di Nicolas Barker e in apparato un’utile Guida alla lettura. Il saggio, apparso originariamente nella Storia dell’arte italiana di Einaudi, uscì in volume per lo stesso editore nel 1986; Petrucci, nato a Roma nel 1932, aveva alle spalle una già lunga esperienza dapprima presso l’Archivio di Stato della Capitale, poi come conservatore di manoscritti alla Biblioteca dei Lincei, infine (e per molti anni) come professore universitario a Salerno, alla Sapienza e infine alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Bussavano in tanti alla porta del suo studio in Piazza dei Cavalieri: colleghi e studenti, arrivati anche da altre sedi, che lo consultavano per lo più su argomenti e testi medievali: «Petrucci l’ha visto?» era formula ricorrente e quasi proverbiale, quando si trattava di affrontare i casi più ardui di datazione di un manoscritto o identificazione di una grafia. Ma la competenza di Petrucci era amplissima anche nel campo moderno e contemporaneo: lo mostrano, tra gli altri, libri come Le scritture ultime (Einaudi 1995), che ha in copertina la foto della tomba di Jim Morrison a Père-Lachaise, ricoperta di graffiti; o come Scrivere lettere. Una storia plurimillenaria (Laterza, 2008). Un anno prima della sua scomparsa (avvenuta a Pisa nel 2018), una gran parte dei suoi studi è stata raccolta in un volume monumentale: Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura (Carocci editore); nel 2019 Viella ha pubblicato i suoi Scritti civili.
Ciò che distingue i lavori di Petrucci è la congiunzione di una prospettiva di lunga durata con una elevatissima capacità di lettura dello specifico ‘caso’ grafico, collocato e interpretato alla luce della storia, tanto quella artistico-letteraria, quanto quella politico-ideologica. Questo secondo aspetto, cioè la dimensione politica e civile, è particolarmente rilevante per le ‘scritture esposte’; con questa definizione, coniata dallo stesso Petrucci, ci si riferisce alle manifestazioni di scrittura concepite per essere fruite in spazi visibili e leggibili collettivamente: lapidi e targhe, avvisi e manifesti, ex voto e graffiti. L’iscrizione, a seconda dei casi, trasmette la voce di un’autorità o esprime una contestazione nei suoi confronti. Per questo, appare esemplare l’immagine da cui siamo partiti, cioè l’iscrizione celebrativa del ponte voluto da Sisto IV, cui è sovrapposto un «“palinsesto naturale” eseguito a spray» (così Petrucci nella didascalia); nel riquadro della targa convivono infatti un’espressione ufficiale e una antagonistica, un monumento storico e un’istanza del presente, un manufatto artistico e un’esecuzione estemporanea. Si realizza così in quell’immagine una concentrazione esemplare sia dell’arco storico e tipologico considerato nel saggio, sia della disposizione dello studioso rispetto alla materia di cui si occupa. L’alto grado di conoscenza, infatti, non implica una neutralità né un’astrazione nello specialismo: il saggio, che ha il pregio di un’elegante leggibilità, esamina il passato anche per cogliervi uno svolgimento, per riconoscere e indicare i segni che arrivano fino al presente, con i suoi conflitti e schieramenti: «le lapidi di pietra si spaccano e i fascisti lo fanno; quelle di metallo resistono» scrive Petrucci, a proposito delle forme scritte della contestazione negli anni sessanta e settanta.
Nei quattordici capitoli che lo compongono, il libro ricostruisce «lungo circa nove secoli la elaborazione delle tipologie grafiche delle scritture d’apparato e l’uso ideologico, estetico, politico che se n’è fatto», alla luce di alcuni concetti fondamentali come la distinzione tra la funzione che la scrittura assolve in un dato ambito sociale e l’uso (cioè l’effettiva capacità di scrivere); o come il dominio («ogni possibile spazio grafico ha un dominus che ne determina l’uso» e ne definisce le caratteristiche). Con queste premesse, Petrucci conduce il lettore per le vie della città antica, poi di quella medievale, rinascimentale, barocca, fino alle periferie delle metropoli contemporanee. Una qualsiasi città dell’Impero romano fra I e III secolo dopo Cristo – spiega – doveva apparire come un mondo popolato dappertutto di scritture «nelle piazze e nelle strade, sui muri e nei cortili, dipinte, graffite, incise», una città scritta insomma: così appunto s’intitola l’articolo che Italo Calvino dedicò al saggio di Petrucci (lo si legge in Collezione di sabbia). In confronto, sembravano ‘muti’ i centri dell’Europa altomedievale, dal momento che «una scrittura esposta all’esterno praticamente non esisteva più». La rivoluzione urbanistica avvenuta in Italia fra XI e XIII secolo rinnovò la funzione politico-civile degli spazi aperti, favorendo il ritorno della scrittura pubblicamente fruibile.
Di epoca in epoca, Petrucci individua il nesso, anzi l’unità tra la forma della scrittura, da un lato, e gli aspetti generali della cultura del tempo, dall’altro, muovendosi agevolmente tra diversi campi: nell’illustrare l’epigrafia funeraria del periodo barocco, ad esempio, riprende da Warburg la categoria di Pathosformel, spiegando come «la scrittura “plastica”» costituisse nel Seicento «una vera e propria “formula del patetico”». La relazione formale e funzionale tra il segno fonetico della scrittura e quello simbolico delle arti è un tema costante dell’indagine di Petrucci, che ne segue la vicenda nel tempo: dalla separazione avvenuta nel XIX secolo (quando le strutture della società borghese recuperano lo stile tipografico classico, alla base dei caratteri bodoniani), al riavvicinamento novecentesco, favorito dalle attività commerciali attente «alle possibilità offerte dalla pubblicità grafica». In questo e in altri àmbiti si sviluppano, tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, «fenomeni devianti», come li definisce Petrucci, rispetto a uno standard grafico: da William Morris in Inghilterra ai futuristi in Italia, la «rottura della norma» determina insieme alle forme grafiche anche un’idea di modernità.
Non sempre però a quest’idea corrisponde un equilibrio tra funzione, forma e uso. È la sfasatura tra questi fattori a motivare, ad esempio, il giudizio sulle tavole parolibere dei futuristi, che va ben oltre l’expertise grafica: il «vivace effetto visivo» di quei testi «violentava le capacità di intendimento, di partecipazione, di critica» del pubblico, sopraffatto da una retorica «distrattiva e urlata» (quest’ultima espressione è di Albe Steiner, cui Petrucci dedica alcune delle pagine più belle). Il fascismo sostituì alla varietà e alla ‘devianza’ delle sperimentazioni d’avanguardia l’uniformità di una scrittura «monolitica»; ma «un’oscura nemesi storica» ha fatto sì che monumenti enfatici come quelli del Foro Italico, carichi della retorica epigrafica del regime, venissero imbrattati dalle scritte degli ultras o dei gruppi neofascisti. Prende spunto da qui il finale del saggio, che ha poco da invidiare alle pagine di uno scrittore: «Due sovrapposti percorsi di scrittura “esposta”, l’uno creato da un potere insieme ottuso, ridicolo e classista, l’altro da masse di giovanissimi cittadini “di serie B”, deculturati e disperati: due percorsi fra i quali, come fra due poli opposti e lontanissimi, è racchiusa, in un lungo arco, la tragedia di una democrazia, come la nostra, mai realizzata e perciò crudelmente imperfetta».