La statua di un uomo stanzia in proscenio. È fatta di pane bruciato (scultura di Matteo Lucca), come se la pelle e il sangue dell’ignoto personaggio si fossero raggrumati dopo un tragico incendio. Nella penombra sonorità elettriche agitano il contesto. Quasi incollato al retro della statua, un ragazzo emerge alla vista. Braccia, gambe, corpo scossi da un’energia violenta, compulsiva, che la pelle giovane, non lacerata, trattiene con dolore in sé. Siamo alla Triennale Milano, debutta in Italia Hamlet dei Dewey Dell, collettivo in forze tra Cesena e Berlino, fondato nel 2006, anime portanti i tre fratelli Agata, Teodora (autrice delle coreografie) e Demetrio Castellucci (compositore), figli del regista Romeo Castellucci, Grand Invité alla Triennale fino al 2024, e di Chiara Guidi, fondatori della Societas Raffaello Sanzio con Claudia Castellucci.

PER DEWEY DELL la tragedia del Principe costretto dal fantasma del padre assassinato a dar vendetta è spunto per ragionare sulla condizione universale di «essere figlio». Dalle note di Hamlet: «Nasciamo da altri, da cui ereditiamo un’origine e da cui impariamo a vivere procedendo per modelli imitativi, proprio come alcuni animali. I figli degli esseri umani però, a un certo punto della loro vita, devono liberarsi da ciò che gli altri, esplicitamente o segretamente, avevano in piano per loro. Se questo riscatto non avvenisse, la vita di chi nasce si consumerebbe nell’affanno cieco di dover rientrare in un disegno, invasivo o latente, che non gli è mai appartenuto».
Nello spettacolo l’ingombrante fantasma del Re padre Elsinore diventa così la statua di pane che simbolicamente nutre, ma anche distrugge il figlio Amleto, perso nella spasmodica ricerca di sé.

LA PAROLA father si infiltra nell’ossessiva partitura, che, come quei grumi di sangue sul corpo di pane e come il moto dei performer, non si scioglie mai. Il principe migra da uno all’altro, (Ivan Björn Ekemark, Dylan Guzowski, Layton Lachman), identità fluide tra l’uomo e l’animale, ora felino strisciante a più occhi, ora inquieto personaggio dal volto clownesco, ora figura danzante con maschera di ferro e coltelli alla mano. Lo spettacolo «vorrebbe tradurre in immagini il difficile processo di individuazione di una persona», ma la via verso la libertà non si sblocca, perdendosi in una drammaturgia a lungo andare monocorde l’impatto dell’affondo iniziale e delle tese metamorfosi.