La cultura del clubbing, il suo antagonismo culturale e la sua forza avanguardistica sono racchiusi nella mostra Night Fever, Designing Club Culture 1960 -Today (prodotta dal Vitra Design Museum e ADAM- Brussels Design Museum) al Centro Pecci, aperta fino al 6 ottobre 2019. Un riattraversamento storico-sociologico che affronta la vitalità con cui dagli anni Sessanta in poi, i movimenti giovanili attraverso la musica, declinavano la propria identità, scavalcando i conformismi culturali correnti. Ed è chiaro che proprio da quell’epoca, accanto alle manifestazioni del femminismo e post-femminismo, la musica con i suoi idoli e i suoi luoghi della cultura (discoteche, club) fiancheggiava quel processo di cambiamento radicale in corso. Ciò che soprattutto si evidenzia è il portato multidisciplinare (architettura, design, fashion) che la cultura del clubbing ha attivato insieme all’affermazione multidentitaria e del gender.

LA MOSTRA, attraverso audio, immagini, reperti, filmati, abbigliamento, oggetti e installazioni, ripercorre il vasto immaginario prodotto in decenni di sperimentazioni musicali che vanno dalla proto-disco alla techno passando per la house music. Tali passaggi, legati a movimenti di massa internazionali, si legavano a visionarie metamorfosi dell’architettura, del design, della fashion e comportamentali. Così il percorso espositivo ruota intorno alle più importanti discoteche della storia del clubbing internazionale, che prende impulso dai dettami della subcultura newyorchese. Tra questi, l’Electric Circus (1967), progettato dall’architetto Charles Forberg e dal famoso studio Chermayeff & Geismar, lo Space Electronic di Firenze (1969), opera del collettivo Gruppo 9999 , il Piper (1966) di Torino, progettato da Giorgio Ceretti, Pietro Derossi e Riccardo Rosso, il Bamba Issa (1969) a Forte dei Marmi ideata dal Gruppo UFO. L’ascesa della disco music, a metà anni ’70, virò verso ulteriori deviazioni architettoniche degli spazi deputati con la centralità psichedelica del dancefloor per riti danzanti collettivi e/o individuali.

FASHION STYLIST come Stephen Burrows e Halston ideavano dresscode dal glamour sfavillante, tipico da disco. Lo Studio 54, aperto a New York da Ian Schrager e Steve Rubell nel 1977 e con gli arredi firmati dall’architetto Scott Romley e dal designer d’interni Ron Doud, divenne un punto di riferimento per incontrare le celebrità artistiche. Proprio nel 1979 usciva il film Saturday Night Fever di John Badham che attraverso l’icona di Tony Manero evidenziò la potenza del fenomeno disco, nato nei club e nei bar frequentati dalle comunità gay, afro e latina, allora marginalizzate dalla maggioranza bianca e eterosessuale. Negli ottanta il clou della scena musicale diventa Londra dove impazza il fenomeno New romantic che dà vita a luoghi come il Blitz e il mitico Taboo, quest’ultimo frequentato da Michael e Gerlinde Costiff e dalla stilista Vivienne Westwood. Qui arriva dall’Australia, l’artista, performer, Leigh Bowery (Sunshine 1961-Londra 1994 ). Bowery è il simbolo carismatico dell’estetica glam che ibrida musica, arte, moda e dance. Personalità eclettica e ipercreativa, Bowery, dal 1984, anima il Taboo, ogni giovedì notte. Performer-trasformista, Bowery gioca sui temi legati al gender, sui codici di appartenenza sessuale e sui loro superamenti, coniugando la scena gay e la sottocultura drag.

NEGLI ANNI del governo conservatore tatcheriano è basilare l’avvento prorompente della musica industriale. Haçienda (1982), realizzata dall’architetto Ben Kelly a Manchester e cofinanziata dalla band new wave New Order, è considerata la cattedrale del rave postindustriale. Da qui l’ascesa dell’Acid house e della techno fino alla trance, nati tra Chicago e Detroit, che rimangono come gli ultimi grandi movimenti contro-culturali. L’immersivo allestimento della mostra, si chiude con i concept nighclubbing degli anni Duemila realizzati da OMA e Rem Koolhaas, come il Ministry of Sound II di Londra e il Mothership di Detroit, con la consolle da DJ mobile, disegnato dallo Studio di Akoaki.