Alcuni percorsi intellettuali sembrano segnati dalla fedeltà a temi e forme già ben definiti dall’esordio e sui quali si torna poi incessantemente: la lunga militanza per la poesia della uruguayana Ida Vitale ne è un esempio. Il suo soggetto in versi, infatti, si muove all’interno di una costellazione verbale in apparenza poco variata, dalla prima raccolta, La luz de esta memoria del 1949, ai testi aggiunti all’ultima edizione della sua Poesía reunida (del 2015): è questo il volume da cui Bompiani ha tratto l’antologia titolata Pellegrino in ascolto 1945-2015 (a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, pp. 464, € 20,00) appena uscito nella bella collana CapoVersi, che si arricchisce di un altro nome significativo della poesia ispanoamericana, dopo quello di Nicanor Parra.

Mai tradotta in italiano, a parte fugaci comparse in antologie degli anni Settanta e più recenti apparizioni in blog specializzati, la vasta opera della scrittrice uruguayana mostra un lavorìo costante, testimoniato dalle numerose varianti da un’edizione all’altra, alla caparbia ricerca del vocabolo unico e irripetibile, che permetta al soggetto poetico di sottrarsi allo scorrere del tempo. Una sorta di «assicurazione contro la morte» e contro l’oblio. Quando due anni fa le venne assegnato il Premio Cervantes, uno dei numerosi omaggi che le furono dedicati, si citò un aforisma di Novalis: «Si è perso il senso del mondo. Ci è rimasta solo la sua manifestazione», parole in speciale sintonia con l’insistenza di Ida Vitale sulla perdita di significato dei segni, come fossero frammenti di un mosaico di cui si è smarrito il disegno originale. Alla parola poetica spetta allora tentare di riprendersi almeno un senso residuale, che possa sostenere il soggetto poetico nel suo viaggio nel mondo.

La generazione del ’45
Se questo lavoro sulla parola è il filo che lega la poesia di Ida Vitale, con il passare del tempo la sua voce si è andata tuttavia modificando, in modi a volte impercettibili, lievi movimenti ondosi che nascondono correnti sotterranee, mentre cercano di ancorarsi ad alcune parole-chiave, ricorrenti come un basso continuo nella sua scrittura.

I primi testi sono contemporanei della cosiddetta «Generazione del ’45», composta di scrittori e scrittrici che esordivano in un paese considerato ancora un’isola felice, lontano dai sommovimenti populisti, dalle rivolte contadine e dalle violenze dell’America Latina della metà del Novecento: fu un gruppo fondamentale per la cultura uruguaiana, che cercò di cogliere contraddizioni e false sicurezze di quell’ambiente borghese un po’ ovattato. Al suo interno Ida Vitale cominciava a distinguersi sia dalle voci veementi e passionali di Idea Vilariño e Amanda Berenguer, tra le tante donne protagoniste della letteratura uruguayana del momento, sia dall’incipiente colloquialismo di Mario Benedetti.

Le parole-chiave che marcano questa prima fase si riferiscono al pozzo e al labirinto, evocando Onetti e Borges ma mantenendo da loro sempre una certa distanza: nella poesia di Ida Vitale, infatti, non funzionano come metafore di situazioni oniriche o metafisiche, ma come spazi dello spaventoso quotidiano, spazi costruiti dalle parole e dai quali il soggetto poetico potrà uscire solo grazie a un diverso intrico delle parole stesse, come la spesso rievocata Arianna, con il suo filo e il suo tentativo di orientamento, sempre potenzialmente fallimentare.

La fase successiva – quella che si rende evidente nelle raccolte Cada uno en su noche (1960) e Oidor andante (1972) – è connotata dalla sperimentazione dello slancio e dell’impegno politico anni Sessanta e Settanta, più concentrate su una parola immediata, urgente, necessaria, pur mantenendosi misurata, anzi esatta. Già nella raccolta del ‘72 si comincia comunque ad avvertire un cambiamento sostanziale, che troverà ampi sviluppi nei libri successivi: la parola poetica perde il suo contatto diretto con il mondo, manifestandosi piuttosto nella sua esclusiva dimensione di vocabolo significante, che solo in lontananza evoca i propri referenti. Nasce da qui la scelta dei giochi verbali, la ricerca delle forme rare che si insinuano nel parlato quotidiano, le ricorrenti assonanze e l’uso musicale del linguaggio.

L’esilio in Messico di Ida Vitale, causato dal golpe militare del 1973 e dalla dittatura che sarebbe durata fino al 1985, facilitò la forte influenza della poetica di Octavio Paz, cui si aggiunse il dialogo sotterraneo che la poetessa coltivò con il neobarocco latinoamericano emergente in quegli anni, sempre tuttavia tenendo in conto un personale spazio di enunciazione. Per quanto certe, le contaminazioni letterarie non sarebbero mai approdate a quella concezione del verbo poetico come fondamento che si ritrova in Paz, perché la parola resta per Vitale comunque sempre «una vaga polvere e un profumo», sfuggente, inafferrabile.

L’impegno come traduttrice
In questi anni, le sue parole-chiave sono legate alla dimensione aerea, al vento, al volo degli uccelli, alludono alla libertà e al movimento, in fertile tensione con la ricerca di una qualche forma di stabilità soggettiva. Di notevole significato risultano allora i titoli delle raccolte degli anni Ottanta, Sueños de la constancia, Procura de lo imposible che testimoniano di una ricerca testarda nonostante la consapevolezza degli approdi onirici, della ricerca dell’impossibile, mentre la sua voce poetica si muove liberamente tra la superficie della sonorità musicale e la profondità dei significati inattesi e imprevisti, approdando a un tono più sereno e cordiale.

Complementare e al tempo stesso di nutrimento, l’impegno nella traduzione porta Vitale a una affettuosa attenzione alla cultura italiana, a Pirandello, a Ungaretti, presente anche nell’evocazione di luoghi e ricordi familiari (e sotto questo aspetto l’edizione italiana mostra, accanto a momenti di eccellenza anche inspiegabili cadute).

La parola che segna l’ultima fase è silenzio. Come per tanti altri poeti del Novecento, fra balbettamenti e futili discorsi, la funzione della parola appare quasi perduta, ciò che spinge la poetessa uruguayana verso una solitaria afasia, condivisa con le moltitudini rimaste senza voce. Vitale abita questo silenzio, si mette in ascolto, cerca di riempirlo con parole che trasmettano al mondo un senso nuovo. Si compie così quel viaggio che fin dai suoi esordi si presentava come una vera e propria «transumanza della parola», dove si era andato costruendo un soggetto poetico migrante, in transito nella parola, nelle sue varianti, nella sua musica, tramite movimenti graduali che hanno tentato di decifrare il mistero del mondo, tra oggetti, spazi di esilio e situazioni concrete, per arrivare al «balzo fuori dalla poesia e dentro la poesia»: se «non sei al sicuro da niente – raccomanda Ida Vitale – cerca di essere tu salvezza di qualcosa».