Nella serie di libri di Ida Travi sembra essere sempre inverno, anche quando altre stagioni baluginano come si trattasse di immagini nate da sogni febbrili. Quest’ultimo libro in versi, il settimo in cui si narrano i Tolki («perché il sesto s’è perduto»), si intitola Marìe canta la famiglia del secolo. Le partiture visive sono a opera di Giuditta Chiaraluce, che insieme a Giorgiomaria Cornelio cura la collana di scritture poetiche «Cervi Volanti», all’interno del progetto Edizioni Volatili (pp. 26, il libro in tiratura limitata va richiesto all’autrice all’indirizzo info.idatravi@gmail.com).

In quella che era chiamata la terra di Zard non si sa quando l’inverno fosse cominciato, ma nevicava sempre e da sempre. La luce era fredda e i suoni radi: «La neve è arrivata/ dal secolo opposto/ come faremo adesso?». La neve attutisce tutti i rumori, eccetto le parole dei parlanti, quelli che erano stati Tolki e che sono ancora del colore della neve che li circonda: «Siamo gente di neve noi, siamo bianchi/ come una volta».

NON È SOLO LA NEVE ad accomunarli ma anche il linguaggio scabro. Pure in quest’ultima silloge, come nella prima Tà poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali, 2011) si parla «una lingua ridotta all’osso»; «c’è una spoliazione in atto. C’è un albero, uno sfrondamento». Se il parlare fa parte della cifra dell’espressione di quelli che furono i Tolki, esso è e resta un parlare nascente, bambino; a tal ragione non fa pensare alla poesia, ma è esso stesso poesia. Lo diventa denudandosi del resto, in quanto parlêtre, fino a identificarsi con il linguaggio stesso.

Se il linguaggio resta spoglio e limpido, dove ci porta questo ultimo lavoro? E in che tempo? Si direbbe che ci troviamo in un tempo nuovo rispetto ai ricordi, rispetto a quello in cui «I Tolki vivevano a Tà, racconta il vecchio, nella terra di Zard». Si tratta allora del tempo che sorge dalle spoglie della rievocazione di quello che fu l’ordito di Inna, Katrin, Sunta, Dora, Kraus, Usov, Nikka, Attè, Sasa, Antòn. Quel tempo che tuttavia resta dov’è, perché quello presente di Marìe è un tempo d’uccelli, del canto che non si scrive: «Quando Marìe lo vorrà imparerà l’arte della poesia, sicuro, ma intanto noi qui si vive come uccelli, qui nessuno sa cos’è un documento». Il canto dell’oralità non ha bisogno infatti né di carta né di scrittura: «Tira fuori la carta, Jan, se ce l’hai…Vedi? Non ce l’hai! I Tolki, loro sì, avevano un foglio, ma noi? che ne sappiamo noi?». Che ne sanno della parola quelli che sono venuti dopo i Tolki? E della scrittura?

La cesura del dire era arrivata con il mutismo dell’asinello del quinto libro di Ida Travi intitolato Tasàr. Animale sotto la neve (Moretti&Vitali, 2018). L’animale, a differenza di Lucio de L’Asino d’oro di Apuleio, non ha mai conosciuto il logos e prosciugava ogni risposta possibile nel silenzio: «Tasàr, Tasàr… cosa sarà di noi/ torneremo là, da dove siamo venuti?». L’autrice ci avvertiva che Balthazar era figura dell’animale protagonista del film del 1966, Au hasard Balthazar di Robert Bresson. Al suo fianco ora scopriamo la nostra Marìe, non ha posseduto l’animale ma ci ha trascorso la sua giovinezza.

QUELLO DI MARÌE sembra più prossimo rispetto a come ci appariva il tempo dei Tolki: «Marìe spegni la tavoletta, mi hai sentito?». Ma allo stesso tempo esso si situa nella dimensione liminale e incerta di quel passato che era, ma che pure sarà. Questo tratto, in cui gli interrogativi del già trascorso restano, in cui non si conosce, tanto quanto non si conosceva prima, in cui non si sa perché Marìe, Lisabeta, Olin, Zet e Jan siano lì, cosa facciano, da dove vengano, questo tempo si sporge sul bordo di un abisso, anzi forse è già il precipizio.

Il passato dei Tolki si congiunge in tal modo al presente di Marìe, che era stata una Tolki e ora non lo è più: «Ed eccoci qui riuniti nella grotta/ con questa malattia della parola/ Zet, Sunta, Olin, e Kraus e Katarina…/ E Os, e Ur e poi Marìe/ Marìe, e tutti gli altri, i posteri/ e i precedenti. E Dora, e Inna, e Antòn./ E il piccolo Sasa/ il piccolo Sasa dov’è?».
Lo scorrere di Marìe è ciò che ci ricorda, senza suggerire risposte rispetto quel che ci attende. Ma è anche un tempo che si e ci risveglia. Cosa ne è di questi attraversamenti? Cosa ne resta a Marìe? Non le resta certo l’evoluzione tecnologica degli umani, di cui non rimane che una pompa di benzina aggiustata con il nastro adesivo giallo e un’automobile a tre ruote, che sta dritta grazie al crick.

Permane invece il tempo prima e dopo il diluvio, prima e dopo la catastrofe. Il tempo delle voci dell’esilio. E cosa ne è dello spazio? C’è qualcosa oltre il «grande contenitore» in cui vive Marìe? Poco altro si muove al di fuori, tutto sembra fermo e quasi deserto, composto dagli afflati di quelle e quelli che vi abitano. È un intorno bruciato dal freddo. «Tutt’intorno, immobile, si stende la campagna», quella campagna che circonda la stazione di benzina in cui Marìe vive con la sua famiglia. Ma è un intorno che permette l’ascolto delle parole in forma di preghiera, di quelle e quelli che riescono a pronunciarle: «Io dirò la preghiera Olin/ dirò tutta la storia/ al tuo orecchio solitario, antico».

COSA NE È DI QUELL’INVERNO senza tregua? E cosa ne è di quelle bianche distese di aliti freddi? Di quella neve? E se la neve fosse, invero, qualcos’altro? E se l’aridità del reale trasfigurasse anche la certezza della memoria, la memoria di quel passato infantile che fu e che, ripetendosi, sarà? «Questa non è la neve, Olin/ questa è la polvere/ Questa è soltanto la polvere/ io lo dicevo Olin, lo dicevo/ il bambino non ci credeva, non ci credeva».