Era la fine di febbraio dell’anno scorso, il festival Vie aveva preso il via da un giorno quando dovette improvvisamente interrompersi. Tutte le attività teatrali erano state fermate, insieme a tanta parte della vita di tutti, dall’esplodere della pandemia. A quasi due anni di distanza i teatri con prudenza hanno riaperto le porte e anche il festival di Ert dovrebbe tornare, nel prossimo autunno. E intanto però ci lascia delle «tracce» che speriamo ci portino là, come questo Imperio di Matías Umpierrez. Prima tappa, pare di capire, di un progetto più ampio intitolato Museo de la Ficción. E di tracce da decifrare ce ne sono parecchie, nel lavoro del giovane artista argentino, presentato come una videoinstallazione performance o un ibrido tra teatro e arti visive, e forse non è né l’una né l’altro ma qualcosa di più indecifrabile.

CHE IL TEATRO c’entri in qualche maniera è indubbio, anche se Umpierrez, ci si dice, predilige muoversi in spazi non convenzionali e convenzionale è piuttosto il richiamo alla fiction. Sono attori in attesa di entrare in scena quelli che gli spettatori si trovano di fronte all’ingresso nella sala dell’Arena del Sole, ciascuno di loro inquadrato all’interno di uno dei nove grandi monitor disposti in posizione verticale a formare un arco, al di sotto della ribalta. Qualcuno col copione in mano ripassa un brano del testo, altri controllano come cade il costume o semplicemente stanno immobili in attesa. Una sorta di polittico di cui è rimasta soltanto la predella. Un concertato di voci si mescola ai suoni degli strumenti che si accordano. Al centro, avvolta in un lungo abito rosso, Ángela Molina, l’indimenticabile protagonista del capolavoro di Luis Buñuel, Quell’oscuro oggetto del desiderio.

POI AI LATI opposti del sipario si aprono due finestre, gli spettatori possono salire sul palcoscenico, all’interno dello spazio che si apre fra le quattro pareti che si fronteggiano, trasformate in altrettanti grandi schermi su cui si allarga la ficción. Una trasposizione del Macbeth nella Spagna uscita dal franchismo e già entrata nella globalizzazione (dopo quella distopica della prima scaligera…). Si festeggia un importante accordo commerciale che la Señora Macbeth ha condotto in porto con dei partner cinesi. Alla fine lei stremata cede al sonno, seduta alla scrivania, e nel sonno le appaiono tre giovani donne dalla pelle scura, che l’appellano vicesindaca e le pronosticano un futuro da sindaca della città. Turbata, al risveglio si confida col marito e lui la spinge ad agire – è Robert Lepage, il regista québécois della Trilogie des Dragons che passa per il mentore di Umpierrez. Il resto va come si sa, come vuole la tragedia scozzese di Shakespeare. Il sindaco viene ucciso nel sonno e la colpa gettata sul suo giovane amante brasiliano. Lei prende il suo posto, come avevano predetto le donne fatali, ma presto cominciano gli incubi, in mezzo alle feste o alle cerimonie, fra gli ospiti che la guardano incerti…
Il teatro si fa così museo? Lasciando stare la fatica fisica della fruizione, un’ora in piedi a girare su di sé per seguire l’azione avvolgente, l’ipotesi sconcerta e ci lascia qualcosa da pensare. Non è mai male.