Nel costruire la trama del suo romanzo d’esordio, Ian Williams – canadese nato a Trinidad nel 1979, conosciuto finora per il suo lavoro di poeta e scrittore di racconti – adotta una struttura sperimentale che divide la prima parte in due sezioni, ciascuna delle quali si articola in 22 capitoli che corrispondono, rispettivamente, ai 22 cromosomi pari contenuti nel Dna di ogni cellula e ai principi organizzativi che ne regolano lo sviluppo attraverso un processo di mitosi, di auto-creazione, di duplicazione: da qui il titolo Riproduzione (traduzione di Elvira Grassi, Keller, pp. 694, € 20,00).

Questa struttura si duplica e si moltiplica nelle altre tre parti del romanzo, secondo la regola dei multipli del 2, creando un insieme speculare che è al tempo stesso originale e affascinante. Ambientato a Toronto, nel sobborgo suburbano di Brampton, il racconto di Williams copre un arco temporale di quasi quaranta anni, dalla fine degli anni Settanta ai giorni nostri, ed è diviso in quattro parti che ruotano intorno al concetto di famiglia, per quanto atipica, e alle sue, nel bene e nel male, declinazioni. Tutto ha inizio in maniera casuale dall’incontro tra Felicia, studentessa liceale diciannovenne originaria di una non meglio identificata isoletta dei Caraibi e Edgar, un ricco e maschilista quarantenne erede di una famiglia di immigrati tedeschi, che si ritrovano ad assistere le rispettive madri, ricoverate nella stessa stanza del reparto Cure Palliative dell’ospedale St Xavier. Pur nell’evidente gravità della situazione, l’atmosfera si colora immediatamente di toni surrealistici e di accenti comici nella descrizione dei due protagonisti che si configurano come la rappresentazione stereotipata e, per molti versi, banale del conflitto di classe, dell’interazione razziale, della pratica religiosa e delle relazioni di genere e che mai farebbe presagire la nascita di una passione.

La seconda parte si proietta in avanti di quindici anni e vede Felicia trasferirsi con l’adolescente Army nella casa di Oliver, un divorziato di origine portoghese che vive con due figli, Hendrix e la sessualmente precoce Heather, da poco tornata dagli Stati Uniti dove risiede con la madre. I quattro (2 volte 2, secondo la regola sopra enunciata) personaggi principali costruiscono e narrano le relazioni atipiche che si instaurano tra di loro in sedici sottosezioni (4 volte 4) fino al momento in cui Heather viene violentata e rimane incinta.

Testi di canzoni composte da uno dei tanti personaggi che incontriamo nel corso del romanzo si inseriscono nella trama a costituire una sorta di controcanto, reso ancora più suggestivo dal formato in apice e pedice che conferisce alla pagina una parvenza di spartito musicale.

La terza sezione – siamo ormai alla metà degli anni novanta – segue la caduta del particolare gruppo familiare nelle 256 (16 volte 16) sottosezioni in cui ciascun membro ricostruisce dal proprio punto di vista l’intera vicenda attraverso una variante dello stream of consciousness. E finalmente, la sezione ultima ci riporta al tempo presente e ci predispone a un finale tragico e deliberatamente circolare dove forma e contenuto si completano e ruotano intorno al tema della memoria, la cui integrità viene più volte messa in discussione. Di qui il ripetersi e il riscriversi in quel gioco di specchi dei ricordi e della storia che si autoriproduce, consentendo allo scrittore di mostrarci come, consciamente e/o inconsciamente, reinterpretiamo tutto ciò che ci accade. Nel momento in cui la vicenda si volgerà in tragedia, quando tutti i personaggi, ineluttabilmente e shakespearianamente, sembrano incapaci di sottrarsi al loro destino, il tono e la forma della narrazione tornano, circolarmente, a colorarsi di toni surrealistici e di accenti comici che rendono quella situazione per la verità macabra una improbabile quanto godibile commedia umana, in cui la tolstoiana famiglia infelice di Anna Karenina viene, sebbene in maniera ridondante, adattata alla contemporaneità.

Il merito è soprattutto dell’invenzione stilistica, dell’uso di una forma polimorfica se non prometeica, del recupero (e della riproduzione) di uno sperimentalismo che a volte suona un po’ datato, con una capacità tuttavia indubbia – dove si rivela l’ottimo poeta che Williams è – nel plasmare la lingua, nel reinventarla come fosse materia musicale radicata com’è nella tradizione letteraria dei Caraibi: dalla dub poetry, con il suo uso ritmico della musica, alla poesia di Derek Walcott, alla produzione romanzesca di George Lamming e Samuel Selvon, anche loro emigrati in Canada, ai diversi englishes che la connotano.