Per quanto preoccupato da problemi tutt’altro che marginali, sia di ordine sociale che politico, Ian McEwan è assai britannicamente refrattario a esibirne le ricadute emotive: le sue immersioni avvengono in biblioteca, dove raccolti i dati necessari a soddisfare le proprie istanze conoscitive, risale alla contingenza e traduce in effervescenti simulazioni narrative le questioni che hanno presumibilmente assillato le sue precedenti ricerche. Perciò, forse, perché gli intrecci dei suoi romanzi sono così giocosamente frivoli e ribelli alle convenienze del buon senso comune, capita di ritrovarsi al tempo stesso ammirati dai virtuosistici crescendo verso il registro più alto della approssimazione tra la parola e la cosa, e infastiditi dalla voluttà dell’autocompiacimento derivato dalle proprie abilità espressive.

Whitehall lo aspetta
Tutti i recenti romanzi di McEwan, i più riusciti proprio perché intonati a quella che deve esserglisi precisata come l’indole narrativa a lui più congeniale, investono questioni vitali e politicamente già compromesse – nel Guscio, il feto cui è affidata la voce narrante aderisce allo scetticismo illuminista mentre già gli sfugge il senso della vita; in Macchine come me, un androide scarta dalla logica dei suoi algoritmi cerebrali e si innamora della fidanzata del protagonista; e nell’ultima novella, Lo scarafaggio (in uscita martedì, traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 120, 16,00 euro) il ribaltamento della metamorfosi kafkiana fa sì che una blatta si svegli e si ritrovi dotata di soli quattro arti, sormontati da una testa pesantissima, nella cui cavità si muove un pezzo di carne umido e ripugnante: era uno scarafaggio, ora è un uomo.

Via via che prende coscienza della situazione e si ambienta nelle sue nuove fattezze, prende anche corpo il ricordo della atavica missione che lo guida, e verso la quale dunque si dirige, costringendo la sua vera natura a deviare da quella che era stata per lui la strada maestra: la canalina di scolo dei rifiuti.

Whitehall lo aspetta, e – incredibile a immaginarsi – egli nella sua missione non è solo: altri come lui, vestite le mentite spoglie degli umani, stanno dirigendosi nei rispettivi Ministeri. Ciò che glieli rende «fratelli e sorelle», se ne accorge in pochi istanti, non si limita «all’essenza cangiante della loro natura blattoidea», bensì ne investe gli intenti, guidati dalla condivisione di «valori semplici e emozionanti come il sangue e il suolo».

Jim Sams, questo il suo nome, ricongiuntosi velocemente al proprio ruolo di Primo Ministro del governo inglese, è pronto a guadagnare alla sua causa, prima ancora dell’intero Parlamento, il presidente americano Archie Tupper, il cui benevolo ascolto autorizza in lui la convinzione della appartenenza alla stessa razza: «Un’ultima cosa, Signor Presidente. Posso farti una domanda personale?… Avevi per caso sei gambe?». Di colpo, cade la linea.

Promotore dell’«Inversionismo in un solo Paese», Jim Sams combatte la freccia del tempo, e predica che il flusso finanziario, nonché l’intero sistema economico, invertano i loro rapporti di causa e effetto, così che un lavoratore paghi per le mansioni che svolge e un proprietario di case per gli affitti che percepisce, gli artisti facciano precedere le loro esibizioni da uno shopping sfrenato così da accumulare contante per potersi pagare la loro ascesa al palco, gli alberghi investano in migliorie per permettersi di remunerare i loro ospiti, la polizia stradale allunghi banconote ai trasgressori, i quali a loro volta utilizzeranno il denaro per pagarsi le ore di straordinario, mentre il governo installa impianti nucleari onde elargire detrazioni fiscali ai lavoratori, e via così verso la piena occupazione di tutti i cittadini di ogni genere e censo.

Man mano che si cala nel suo ruolo e ne focalizza i dettagli, l’ex scarafaggio, ora Primo Ministro, si perfeziona nelle strategie della specie di approdo e ordisce trame calunniose ai danni dell’unico politico che osa contraddirlo, il Ministro degli Esteri. Intanto, malinconicamente si separa, con ardite rinunce, dai gusti della specie di provenienza: al suo primo caffè servito dal consigliere personale, avvistato con la coda dell’occhio un moscone agonizzante, Jim si trattiene dall’afferrarlo mentre l’acquolina gli scioglie la bocca: «Quando un moscone è morto da più di dieci minuti diventa amarissimo da mangiare. Da semivivo o da appena morto, sa di formaggio…». Dove sono i bei momenti.
E tuttavia. A forza di rinunce e duro lavoro, la missione al fine si compie: ai concerti i fan si presentano aspettandosi di venire pagati, i saldi raggiungono cifre vertiginose, lunghe file davanti ai bancomat segnalano la difficoltà di infilare banconote nelle fessure prima destinate alle carte di credito.

L’inversione dell’economia è una realtà di fatto, dunque a Jim Sams, insieme agli altri componenti della specie, non resta che mettersi in fila per riportare ai diversi Ministeri i loro corpi presi in prestito. All’ombra del precoce buio invernale, uno dopo l’altro attraversano i cancelli di Dowing Street nella direzione di Whitehall e imboccano la canalina di scolo per tornare da dove erano venuti: alle spalle, una umanità resa più povera e promiscua dalla follia lasciata in dote, assicurerà agli scarafaggi condizioni ideali per la proliferazione della specie.

Fra Swift e Kafka
Nella loro funzione di dispositivi letterari che contano sulla sospensione della credulità, tutti i protagonisti degli ultimi romanzi di McEwan accompagnano il suo congedo dal realismo, mentre nutrono un repertorio virtuosistico sempre più indulgente verso fioriture contenutistiche compostamente contenute in gabbie semantiche strettissime. Che sia Swift o Kafka il mentore del momento poco importa, tutta di McEwan è la traslazione in apparenti futilità inventive del suo scoramento politicamente motivato, ora che la Brexit ha aperto la strada lungo la quale «la disperazione incontrava lo sberleffo».