La prova di forza di ieri tra sciiti e sunniti non poteva rappresentare meglio la tragedia irachena: a contrapporsi da una parte i volontari che, imbracciate le armi contro la minaccia qaedista, sfilavano per le strade della simbolica Sadr City; dall’altra il Siil che assumeva il controllo della città di confine, Al Qaim. La presa della comunità della già devastata provincia sunnita di Anbar ha regalato alle milizie islamiste un altro risultato fondamentale per il rafforzamento delle proprie posizioni: città a nord di Baghdad, appoggiata sulle rive dell’Eufrate, dista una manciata di chilometri dal confine con la Siria. Punto strategico che permette al Siis di assumere il totale controllo della frontiera e, quindi, il passaggio di armi e miliziani, già facilitato dalla presenza dei qaedisti in territorio siriano.

Una conquista che cancella le frontiere ufficiali, primo passo concreto del Siil verso la creazione di un califfato sunnita a cavallo tra Siria e Iraq. Oltre ad Al Qaim, le milizie qaediste hanno occupato anche la vicina città di Rawah, sempre nella provincia di Anbar. Le due azioni combinate mostrano l’abilità degli islamisti a muoversi su più fronti, da quello energetico a nord a quello territoriale e strategico a ovest. Ad aprire loro la strada anche il disfacimento dell’esercito regolare che, come avvenuto nei primi giorni di offensiva, è stato costretto ad abbandonare le proprie postazioni.

Con le truppe a terra, a prendere le armi sono i civili sciiti. Dopo l’appello lanciato dall’Ayatollah Al Sistani, si stima che due milioni di volontari si siano presentati nei centri di reclutamento governativi, attirati anche dallo stipendio promesso dall’esecutivo. Ieri Sadr City, simbolo della comunità sciita e della resistenza anti-statunitense, e altri centri in tutto il paese sono stati teatro di un’imponente marcia militare: decine di migliaia di persone, con indosso le uniformi e in spalla fucili semi-automatici e granate, hanno camminato per le strade del quartiere di Baghdad. Ad accompagnarli, camion che trasportavano il famoso missile Moqdata 1, ribattezzato così in onore di Moqdata Al-Sadr, religioso sciita in prima fila nel combattere l’occupazione Usa: «Queste brigate inviano un messaggio di pace, sono brigate della pace – ha commentato Al Sadr, che non ha ancora ufficialmente schierato i propri miliziani – Sono pronte a sacrificare le loro anime e il loro sangue per difendere l’Iraq».

Durante le parate di ieri, i volontari hanno intonato slogan per Al-Sadr e ripetuto il nome “Jaysh al-Madhi” (l’esercito Al-Madhi), la milizia ora ufficialmente inattiva che il leader guidò nel post-Saddam contro le truppe statunitensi. Tanti anche gli slogan anti-Usa. Dietro il tentativo di riorganizzare militarmente la componente sciita e le neonate “Brigate della Pace” c’è lo stesso Moqdata Al-Sadr: fattosi da parte alle elezioni parlamentari di fine marzo, con un annuncio che sorprese i suoi stessi fedelissimi, coglie oggi al balzo l’occasione di rimpiazzare il nemico Maliki. Il premier, sciita come il religioso ma da sempre considerato un avversario dalla coalizione politica di Al Sadr, viene trascinato nella polvere in casa e fuori, con gli Stati uniti che premono dietro le quinte per la sua rimozione. E oggi i diecimila miliziani, che gli analisti ritengono formare la milizia di Al Sadr, andranno messi nel piatto della bilancia del potere interno iracheno: una prova di forza che Maliki non può fingere di non vedere. E nemmeno Obama, che non guarda certo di buon occhio alla rinascita di Al Sadr, vecchio avversario e di nuovo potenziale nemico.

Sul piano governativo, ieri Washington è tornata a spingere per un nuovo governo di unità nazionale in Iraq, dicendosi pronta a ogni sforzo diplomatico necessario alla riconciliazione interna. La voce di Obama, che non ha ancora dato il via libera all’utilizzo dei droni come chiesto da Baghdad, si unisce a quella delle élite politiche e religiose del paese che vogliono Maliki alla porta. Se una simile possibilità dovesse concretizzarsi, secondo la costituzione irachena spetterebbe al presidente, il curdo Jalal Talabani, assumere ad interim il ruolo di premier fino a nuove consultazioni elettorali. Ma, vista l’assenza di Talabani (in Germania da due anni per motivi di salute), verrebbe nominato temporaneamente primo ministro il suo vice, lo sciita Khudeir al-Khuzaie.
A patire le conseguenze tragiche del conflitto è il popolo iracheno: secondo le Nazioni unite, sarebbero oltre un milione i civili costretti a lasciare le proprie case nel corso del 2014. Una drammatica crisi umanitaria che ricorda da vicino il 2003: mezzo milione gli iracheni in fuga da Mosul, occupata dal Siil il 9 giugno; un altro mezzo milione quelli scappati dalla provincia di Anbar.