In un mondo in cui la musica è stata zittita dalla pandemia anche un gruppo di violini è stato tenuto in ostaggio dalla quarantena. È successo questa primavera a Los Angeles e per questi strumenti musicali è solo l’ultimo capitolo di un’avventura straordinaria. I violini appartengono a una collezione nota con il nome di «Violins of Hope», i Violini della speranza, ed erano giunti nel marzo scorso in California per essere suonati in una serie di concerti. Lo scattare del lockdown ha sospeso le esibizioni e i violini sono stati per diversi mesi muti e bloccati in una Los Angeles diventata spettrale come tante altre metropoli internazionali.
La storia dei Violini della speranza è unica. Sono 88 strumenti che appartenevano a musicisti ebrei deportati o vittime di persecuzioni durante la seconda guerra mondiale. Ognuno di questi ha una propria storia, sempre tragica, ma anche capace di dimostrare la resistenza dello spirito umano e la forza di un’arte come la musica di sopravvivere all’orrore. Nella collezione c’è un violino che veniva suonato da quelle improvvisate orchestrine che nel campo di sterminio di Auschwitz intrattenevano i prigionieri e i kapo e accompagnavano i condannati a morte. È appartenuto a Abraham Davidowitz, un ebreo che si era salvato scappando nel 1939 dalla Russia alla Polonia. Alla fine della guerra andò in Germania a lavorare in uno dei campi profughi che ospitava gli ebrei liberati dai lager che attendevano il loro destino. Qui fu avvicinato da un anziano sopravvissuto che gli vendette lo strumento che aveva suonato nell’inferno del campo di sterminio in Polonia. Abraham lo acquistò sia per aiutare l’anziano che aveva disperatamente bisogno di denaro, sia nella speranza che il figlio Freddy imparasse a suonare. Molti anni dopo è stato proprio Freddy a donarlo alla collezione.

VALORE SIMBOLICO
È uno strumento di grande valore simbolico, ma di nessun pregio dal punto di vista musicale. È infatti una contraffazione di un marchio molto rinomato all’epoca, J.B. Schweitzer, riprodotto in una liuteria della Sassonia o del Tirolo. Un altro violino fu gettato da un treno di ebrei francesi che stava viaggiando verso i lager. Venne raccolto da un operaio che lo conservò, ma lo lasciò per decenni in una soffitta. Ci sono poi gli strumenti ad arco che i musicisti ebrei tedeschi avevano con sé quando si trasferirono in Palestina per formare la Palestine Orchestra, fondata nel 1936 dal violinista ebreo di origine polacca Bronisław Huberman per salvare gli artisti dalla persecuzione nazista. I musicisti tennero il loro primo concerto a Tel Aviv diretti da Arturo Toscanini.
Ci sono poi i violini istoriati con la Magen David (la Stella di David) che accompagnavano nei ghetti d’Europa i suonatori ambulanti di musica klezmer e quelli che appartenevano ai rifugiati che cercarono una nuova vita negli Stati Uniti. Una cupa testimonianza di quell’epoca è un violino che fa parte della collezione, ma non viene mai suonato. Apparteneva a un musicista ebreo che lo diede in riparazione a un liutaio tedesco. L’artigiano, un antisemita, all’interno intagliò la scritta «Heil Hitler 1936» e incise una svastica, restituendolo poi all’ignaro proprietario.
I «Violins of Hope» sono nati grazie al liutaio israeliano Amnon Weinstein. Suo padre, Moshe, era nato a Vilnius e si era poi trasferito a Varsavia dove era diventato liutaio e violinista e aveva conosciuto la futura moglie, una pianista che lo accompagnava quando si esibivano nei cinema improvvisando dal vivo la colonna sonora per i film muti. Entrambi ebrei, decisero nel 1938 di lasciare l’Europa e di andare in Palestina, allora sotto mandato britannico, scampando così a una tragedia che cancellerà completamente le loro famiglie. Moshe aprì a Tel Aviv una bottega di liuteria, la prima del paese, e iniziò a lavorare proprio per la Palestine Orchestra. Alla fine della guerra però i musicisti ebrei si rifiutarono di suonare strumenti di produzione tedesca. Possedere infatti prodotti fatti in Germania veniva considerato un atto sacrilego per il popolo che aveva subito la Shoah.
Moshe Weinstein tuttavia riteneva che fosse ancor più sacrilego distruggere degli strumenti musicali e decise di acquistarli, costruendo il primo nucleo della collezione. Amnon, diventato anch’egli liutaio dopo aver frequentato la scuola di liuteria di Cremona negli anni Sessanta, conservò gli strumenti acquistati dal padre, li restaurò e nel 1991 venne invitato a parlare a Dresda all’associazione dei liutai tedeschi. Quella che era solo una piccola collezione privata che la famiglia Weinstein aveva tenuto riservata, divenne nota al pubblico che ne capì lo straordinario valore storico e il profondo significato umano. Il liutaio venne invitato a parlare alla radio israeliana. Da quel momento l’artigiano ha iniziato a ricevere in dono molti altri strumenti, ognuno dei quali aveva una storia legata all’Olocausto.

RIMESSI A NUOVO
Tanti erano danneggiati e dimenticati, ma tutti sono stati rimessi a nuovo e, poiché un violino è vivo solo se viene suonato, sono diventati protagonisti di concerti tenuti in tutto il mondo. «I nazisti non lasciavano pregare gli ebrei prima della morte. Il violino ha fatto questo per loro – ha detto Amnon Weinstein in occasione del suo ritorno a Cremona nel 2019, dove ha ricevuto il Cremona Musica Award -. Il primo violino che ho riparato è stato suonato mentre i reclusi andavano verso le camere a gas. Riascoltare oggi quel suono, l’ultimo ascoltato da quelle persone, è veramente commovente. Perché noi sentiamo lo stesso suono che loro hanno sentito. Penso di essere fortunato a dare a questi strumenti una nuova vita». Tra i Violini della Speranza c’è anche uno strumento italiano. Apparteneva a Gualtiero Morpurgo, musicista per passione e di professione ingegnere e giornalista, un ebreo di Ancona che nel 1943 scappò in Svizzera, per poi tornare in Italia alla fine del conflitto e apprendere che la madre era stata deportata senza fare più ritorno. Divenne allora collaboratore dell’organizzazione segreta Haganah per aiutare gli ebrei sopravvissuti a raggiungere la Palestina; lavorò poi in Cile dove fu ingegnere e corrispondente dell’agenzia Ansa, per tornare anni dopo definitivamente in Italia. Aveva sempre con sé il violino che oggi è tra quelli custoditi da Amnon Weinstein. «Questi violini – ha detto il liutaio israeliano – sono solo 250 grammi di legno, ma parlano per tutti quelli che non possono parlare più». Il suono delle loro corde ha però avuto in un’occasione anche il sapore della rivincita. È accaduto nel 2009 quando il celebre violinista Shlomo Mintz ha suonato uno degli strumenti della collezione proprio dietro i cancelli di Auschwitz. Nel posto in cui avevano tentato di cancellare l’umanità, un ebreo libero si riappropriava della dignità della musica e dell’arte.
La più recente impresa di questi strumenti è stata dunque affrontare la pandemia del 2020. Degli 88 violini della raccolta, 60 sono stati spediti a Los Angeles per un ciclo di concerti allo Younes and Soraya Nazarian Center for the Performing Arts. Qui sono stati sorpresi dal diffondersi dell’epidemia di coronavirus e dal lockdown imposto dal governatore della California. Per prevenire furti o eventuali danni in questa quarantena sono stati conservati sotto il palco della sala da concerti che doveva risuonare con le loro note. Ma è stata solo l’ultima sfida dei «Violins of Hope» che ci insegnano che anche il più terribile dei giorni è destinato a finire.