Concita De Gregorio, introducendo il volume 365D : trecentosessantacinque giorni da donna (raccolta di ritratti e racconti per illustrare l’Italia al femminile pubblicato da Silvana ormai 7 anni fa), esordiva col giudizio “sono tutte bellissime”. Nel medesimo pregiudizio estetico non cade per fortuna Meagan Marie, l’autrice del catalogo Women in Gaming: 100 professionals of play appena pubblicato dall’editore inglese DK/Prima Games: la maggior parte delle 100 professioniste appaiono, nelle schede loro dedicate, solo tramite una “foto-tessera” con effetto “pixellato”, quasi uscissero tutte da un videogioco degli anni ’90. Perché non interessa se sono belle o brutte: interessa che tutte assieme mostrino come in un mondo supposto maschile per eccellenza come quello dei videogiochi le donne non siano solo gli ipersessualizzati avatar come quello del Tomb Raider originale (anche se, un po’ paradossalmente, è il gioco preferito da Meagan Marie). Già da tempo si è stabilita la parità nella fruizione videoludica, con questo nuovo libro arriva l’opportuna sottolineatura che le donne sono presenti anche sull’altro versante, quello creativo, produttivo, professionale.

Non solo in realtà dalla storia recente del medium: la prima scheda del libro è, per esempio, dedicata a Carol Kantor che nel 1973 venne assunta alla Atari per gestire la divisione di ricerche di mercato dell’azienda, introducendo per la prima volta tale strategia di marketing in un’azienda videoludica. Altrettanto interessante vedere le schede dedicate a donne provenienti da ambiti geografici solitamente non collegati all’industria videoludica come Ari Green che ha fondato un piccolo team di sviluppo nei Caraibi; Sithe Ncube che sostiene dalla Zambia le potenzialità del mercato africano per il mobile gaming; Nourhan ElSherief, game designer e programmatrice per la Instinct Games con sede al Cairo; Camila Gormaz, cilena, a cui si deve Lone Gone Days, uno dei più interessanti giochi indie dell’anno scorso; Nidhi Adwani, programmatrice indiana; Reine Abbas ha fondato in Libano Wixel per dare spazio ad artisti locali che possano creare giochi legati al contesto arabo; o ancora Ana Ribeiro che inizia la sua carriera professionale in Brasile con un ambìto e stabile impiego governativo che lascia per andare in Inghilterra a studiare programmazione e tornare poi in Brasile e sviluppare Pixel Ripped, uno dei giochi VR più scaricati nel 2018 sulle piattaforme digitali come Steam VR, Oculus Store e Playstation VR. Per quanto riguarda l’Italia sono due le donne menzionate nel libro: Simona Tassinari che dopo la laurea si è trasferita prima in Olanda e poi in Svezia come capo programmatrice della divisione Ubisoft che ha lavorato a giochi come Kinect Sports, Tom Clancy’s: The Division, Mario+Rabbids Kingdom Battle, ecc. e Micaela Romanini attualmente direttrice della sezione eventi di Gamerome e fondatrice della divisione italiana di Women in Games (WIGJ).

Forse però l’elemento più interessante del libro è che dimostra come essere donne nel mondo dei videogiochi non è solo avere organi riproduttivi femminili. Il libro si preoccupa infatti di dar voce anche alla comunità LGBTQ+, ad esempio raccontando l’esperienza sia di programmatrice sia di teorica della diversità sessuale nei videogiochi di Anna Anthropy, trasgender lesbica, o lasciando spazio a Patricia E. Vance – presidente di ESRB (l’agenzia statunitense equivalente al PEGI europeo) – che spiega come l’essere madri possa aiutare – e non mettere in difficoltà – le donne che lavorano (anche in ambito videoludico).