Il caso dell’uomo ossessionato (perseguitato) dalla massa, di cui pure è parte integrante, trova la propria epopea in questo La famigliastra di Ferdinando Tricarico (Manni, 2013, pp.70). La desinenza – astro del titolo è l’esponente che avverte della natura del libretto, il quale raccoglie l’ampia, variegata gamma delle animosità e degli umori, ma anche degli avvelenati indugi perfino compiaciuti, di quintessenziali misture linguistiche ingeneratesi nell’autore dalla ricognizione della cellula familiare quale si trova diffusa in territorio nazionale. E la sanie che manda in malora l’eccellenza di ogni possibilità umana viene rivelata da concrezioni verbali del tutto singolari per la violenza delle sue distorsioni, sia in senso di contaminazioni tra parole, sia in senso caricaturale, o in entrambi i sensi insieme.

Gli impatti con i diversi campioni visitati nel suo vagabondaggio di odierno Ulisse ne liberano la furente carica verbale tutte le volte che giungono a cimentarsi con la finezza della sensibilità nativa o acquisita dell’autore, esasperandone la coscienza che si risolve in un «ludoshock di suono e senso», assolutamente proprio di «Tricarico, poeta minore del nuovo millennio», come egli stesso si definisce. Esito a parlare della lingua de La famigliastra come di un impasto linguistico nonostante la omogeneità costante dei testi: più che un amalgama la consistenza mi pare come di più o meno brevi formazioni compatte, certo, eppure irte di spigoli e spuntoni taglienti. E il lenocinio delle ricorrenti eco familiari di scrittura poetiche pregresse, di cui è ben nota l’acquiescenza, assume qui il compito di rendere digeribili le formazioni stesse, nel medesimo spirito di quella Teoria e storia della citazione codificata da Luciano Caruso una volta per tutte (Virgilio Marone grammatico, Epitomi ed epistole, Liguori).

Le citazioni, o piuttosto le suggestioni letterarie di Tricarico restano sempre riconoscibili, ma a testimonianza del suo largo respiro mi limiterò qui a menzionare quelle riprese da Giambattista Marino e dal Verlaine di Langueur. E tutte le suggestioni s’insinuano abilmente, agevolmente nei testi (nelle formazioni) al pari dell’insistito plurilinguismo e comprese le discese gergali e vernacole. A questo punto sono tentato dal vecchio demone della classificazione con la domanda se questa di Tricarico si possa dire poesia civile, ma bisognerà intendersi.

Lasciamo pure andare che come poesia civile furono indicate le moralistiche versificazioni di Pasolini, ma mi pare che i versi di Mario Lunetta lascino poche obiezioni in tal senso. Però, se un testo umorale ed eteroclito come La tenzone di Emilio Villa (Poesia satirica italiana d’oggi, Guanda) risulta di argomento civile, questo potrebbe costituire fatto antecedente rispetto agli umori de La famigliastra. Ma il ludoshock resta la cifra assolutamente personale di una lingua secreta e trasudata da pori irripetibili, gestita come irrefrenabile e tuttavia sorretta dalla qualità accorta e sorvegliata nella resa dei testi.