Qualcuno dovrebbe ricordare al Presidente della Commissione europea che del senno del poi son piene le fosse. Ma sarebbe troppo generoso.

Visto che il presente non porta un senno migliore.Intervenendo nell’Aula del parlamento europeo Jean-Claude Juncker, in occasione della celebrazione dei venti anni dell’euro ha affermato che «Non siamo stati sufficientemente solidali con la Grecia e con i greci». Un vero eufemismo. Non si è trattato di una carenza di vicinanza, ma di un accanimento persecutorio che si è protratto per diversi anni e ancora insiste, visto che le politiche del rigore vengono perpetuate in tutta la Ue. Dopo di che Juncker ha cercato di scaricare la colpa di «un’avventata» austerità sulle spalle del Fondo monetario internazionale.

Ovviamente quest’ultimo non è un’istituzione angelica, ma non assolve le specifiche responsabilità dell’elite dirigente europea nel corso della dissennata gestione della crisi. D’altro canto i frutti si vedono. Per l’Italia siamo a un passo dalla recessione certificata, anche la Germania conosce numeri negativi e tutta l’area dell’Eurozona e della Ue appare in grave difficoltà rispetto al resto del mondo, ove si profila l’eventualità di un nuovo balzo nella recessione e dello scoppio di una nuove bolla finanziarie.

Non sono certo bastate le parole di Mario Draghi a risollevare le speranze sull’economia europea. Il suo elogio dell’euro, i cui benefici non sarebbero stati pienamente realizzati in alcuni paesi a causa della mancanza delle «riforme a livello nazionale» e della incompletezza «dell’Unione economica e monetaria» è assolutamente non convincente. Sia perché molte delle «riforme», cioè controriforme, sono state implementate con pedissequa osservanza. Basta pensare alla famosa lettera della Bce dell’agosto del 2011 a un Berlusconi declinante che ha dettato la politica economica di tutti i successivi governi. Sia perché l’Unione europea, si è dotata sì di ulteriori strumenti di governance, che però sono stati giri di vite al più cieco rigorismo. L’esempio del fiscal compact vale per tutti. Infine questa celebrazione sottace la storia reale dell’Unione e della moneta unica. L’idea, secondo il modello funzionalista di David Mitrany e Jean Monnet, che partendo dall’economia si potesse passo a passo giungere all’unità politica ha dato vita ad una costruzione a-democratica. Il funzionamento delle istituzioni europee venivano in sostanza mutuate dal modelli di governance delle imprese prima e delle società finanziarie in seguito, mano a mano che avanzava il processo di finanziarizzazione del capitalismo. L’euro è figlio di questa storia. Che l’Europa della fine degli anni Ottanta non fosse un’area valutaria ottimale avrebbe dovuto essere evidente a tutti. Dei criteri che la definivano (secondo l’elaborazione Mundell, Nobel per l’economia del 1999) esistevano solo quello della flessibilità di prezzi e salari e della mobilità dei capitali, mancando tutti gli altri, dalla piena libertà di movimento dei lavoratori alla integrazione fiscale.

Perfino Milton Friedman in un famoso saggio nel 1997 preconizzava una possibile implosione della Ue senza un governo centrale della spesa. Ma le classi dirigenti, con responsabilità delle sinistre, pensarono affrettarsi verso la moneta unica, malgrado che già l’esperienza del Serpente monetario degli anni Settanta avesse dimostrato quanto importante fosse e per converso quanta renitenza restasse da parte degli stati membri ad attuare una vera politica fiscale comune, assente anche dal rapporto Delors del 1989. Non è dunque fondato l’elogio di Draghi dell’euro quanto non lo sono le analisi che vedono in questo la causa di ogni male. In realtà l’euro e la mission della Bce hanno rappresentato un passaggio, certamente cruciale, basato sul primato della lotta all’inflazione, nonché dell’abbandono di qualunque politica occupazionale e dell’intervento pubblico in economia. Che sono le caratteristiche di quella grande «rivoluzione conservatrice» che ha permesso al capitalismo di vincere – per ora – la sua lotta di classe. L’intervento pubblico non significava solo più welfare, ma potenzialmente l’allargamento della sfera della produzione di valori d’uso a scapito di quelli di scambio. Il che avrebbe potuto mettere in discussione il capitalismo quale economia monetaria di produzione. Occorreva ristabilire il primato della moneta.

Da qui la separazione tra Tesoro e Banca d’Italia che ha costituito il modello per la stessa Bce. La risposta non può essere quindi l’uscita dall’euro. Non si possono dimenticare esperienze storiche anche recenti, come quella del nostro paese (ma non solo) che nel 1992 vide contemporaneamente la svalutazione della lira e il seppellimento definitivo della scala mobile. Ovvero insieme la svalutazione della moneta e del lavoro, non la possibile alternativa fra le due. So bene che questo tema è complesso e rilevante per le prossime elezioni europee. Mi sembrano del tutto attuali le parole con cui Lunghini rispondeva alle critiche di alcuni economisti a un suo articolo del settembre 2016 : «Una delle mie preoccupazioni è l’avanzata delle destre populiste, tuttavia anche a sinistra talvolta si parla di una uscita dalla Uem e dall’euro. Nessuno ha però ancora dato risposta alla domanda…: quali potrebbero essere le conseguenze positive … per l’economia italiana tutta e in particolare per i lavoratori?».