Massima allerta per i diplomatici e le ambasciate. Strade chiuse. Voli in partenza rimandati, quelli in arrivo dirottati al Nord, a Mazar-e-Sharif. Almeno 4 ore di combattimenti, 7 guerriglieri morti e un’immediata risonanza mediatica. È questo il bilancio dell’attacco compiuto ieri da un gruppo di talebani all’aeroporto internazionale di Kabul. Le prime esplosioni si sono sentite all’alba, poco dopo la preghiera del mattino, intorno alle 4.30 (le 7 in Italia).

Secondo Sediq Seddiqi, portavoce del ministero dell’Interno, il gruppo di guerriglieri avrebbe occupato un edificio in costruzione a Qasaba, un quartiere residenziale nato negli anni dell’occupazione sovietica. Per evitare i controlli, avrebbero indossato uniformi della polizia di frontiera afghana, ha sostenuto un testimone all’agenzia Reuters. Due di loro indossavano cinture esplosive e si sarebbero fatti saltare in aria, mentre altri cinque sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza afghane, afferma Mohammad Ayub Salangi, capo della polizia di Kabul. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha rivendicato con un testo inviato ai giornalisti l’attacco di ieri, rivolto alla «zona militare straniera dell’aeroporto di Kabul». Per lui, gli studenti coranici avrebbero provocato «pesanti perdite» anche tra i soldati afghani.

Come tutti gli attori del conflitto, anche i «turbanti neri» fanno propaganda. Ma questa volta possono legittimamente rivendicare il «colpaccio»: aver colpito il luogo più protetto della capitale, simbolo per eccellenza dell’occupazione militare, impegnando per almeno cinque ore le forze di Isaf (dall’aria) ed esercito e polizia nazionali (da terra). La battaglia militare l’hanno vinta governo e Nato ma lo smacco politico, l’effetto mediatico, l’eco internazionali valgono per la guerriglia molto di più della perdita di sette combattenti (qualche fonte ha azzardato che fossero invece una dozzina) comunque votati al martirio in operazioni dove la morte del commando è certa.

Non è la prima volta che la guerriglia in turbante attacca l’aeroporto: è anzi stato per anni uno degli obiettivi più ricercati e ricorrenti. Ma tradizionalmente lo si colpiva sparando razzi da uno dei tanti picchi che circondano Kabul e tra i quali è facile mimetizzarsi specie se il cannoncino viene telecomandato. Privilegiavano le ore della notte o le prime luci dell’alba, sparavano a pioggia, con diversi colpi a vuoto o meglio sulle case di Macrorayon, quartiere residenziale di epoca sovietica. Poi è diventato sempre più difficile colpire dalla montagna e gli attacchi si sono ridotti. Sino a ieri. Paradosso vuole che la zona di Qasaba sia anch’essa di epoca sovietica, case popolari per gli impiegati dello scalo. Ora, come ogni luogo a Kabul, è in preda alla febbre edilizia che riempie la città di scheletri in cemento armato nei quali è facile arrampicarsi e, dai piani alti, dominare e colpire l’obiettivo.

L’attacco di ieri rientra nell’offensiva di primavera lanciata il 27 aprile dai talebani. Da allora, gli attentati si sono moltiplicati, soprattutto a livello periferico e perfino in aree finora considerate sicure, come la valle del Panjshir e la provincia di Herat.

La tendenza a mostrare i muscoli era già in atto, ha sottolineato in un articolo recente Thomas Ruttig, co-direttore di Afghanistan Analysts Network, uno dei più autorevoli centri di ricerca di Kabul. Secondo i dati raccolti da Anso, l’organizzazione che fornisce dati sulla sicurezza alle Ong che lavorano in Afghanistan (unica fonte a cui fare riferimento sul numero di attacchi degli «insurgents» dopo che Isaf ha interrotto la sua ’mappatura’), i primi quattro mesi del 2013 registrano infatti un incremento del 47% del numero degli attacchi rispetto al 2012, e in 25 delle 34 province afghane c’è stato un numero maggiore di azioni rispetto all’anno scorso. Per gli analisti di Anso, «l’attuale nuova escalation continuerà per l’intera stagione, e il 2013 è destinato a diventare il secondo anno più violento, dopo il 2011».

A rimetterci, saranno in primo luogo i civili: già a fine aprile Jan Kubis, a capo della missione dell’Onu in Afghanistan, ricordava che nei primi tre mesi del 2013 c’era stato «un aumento di quasi il 30% delle vittime civili, con 475 civili uccisi e 872 feriti». Qui a Kabul, tutti si aspettano che i gruppi anti-governativi si facciano ancora più pericolosi, nei prossimi mesi.

Le decisioni di Bruxelles sul nuovo mandato della missione Isaf, dal 2015 Resolute support, ha dato impulso all’offensiva facendo presumibilmente decidere nuovi obiettivi nel tentativo di rafforzare l’idea nella popolazione che chi accetta di rimanere dopo il ritiro fissato a dicembre 2014 la pagherà cara. Italiani e tedeschi, responsabili delle aree Nord e Ovest del Paese, si aspettano attacchi mirati che finora hanno sempre preferito americani e britannici (responsabili dell’Est e del Sud). La possibilità di una svolta decisa, Bruxelles non l’ha colta. E con lei le cancellerie dei paesi Nato.

Nessuno ha avuto il coraggio di avanzare una nuova proposta politica che superasse lo stallo inevitabile in cui la Nato, alleanza eminentemente occidentale e marcatamente americana, si è cacciata sin dall’inizio di Isaf, senza far il minimo sforzo per coinvolgere altri attori che rendessero più digeribile la presenza straniera.

Una presenza che in altra forma non sarebbe disprezzata specie nelle città, dove nessuno ha voglia di veder ritornare il comando dei mullah.