Oggi guardiamo le immagini dei treni dall’Ucraina e dei barconi stracolmi nel mare nostrum come francobolli sbiaditi, lontani. Eppure neanche 80 anni fa quelle storie di miseria e distruzione eravamo noi. Dopo la guerra, l’Italia era un paese devastato. Soprattutto il Sud, la cui popolazione infantile versava in condizioni gravissime. Da un’idea di Teresa Noce, dirigente comunista e partigiana battagliera, nacquero i «treni della felicità».
Grazie al coordinamento del Partito Comunista e delle donne dell’Udi, 70mila bambine e bambini provenienti da ogni parte della penisola furono portati in «Alta Italia» e salvati dalla miseria della guerra. Questa storia, per anni dimenticata, sta tornando alla luce grazie al prezioso lavoro d’inchiesta di Giovanni Rinaldi, Alessandro Piva e Simona Cappiello, rispettivamente autori del libro C’ero anch’io su quel treno (Solferino), il documentario Pasta nera e il documentario, poi divenuto libro, Gli occhi più azzurri. Le storie vere dei Treni dei bambini (Colonnese). Anche da queste fonti è nato I treni della felicità, lavoro teatrale scritto da Alessandra Vannucci e diretto da Laura Sicignano con Fiammetta Bellone, Federica Carruba Toscano, Egle Doria e le musiche live di Edmondo Romano, prodotto da Fondazione Luzzati Teatro della Tosse di Genova e Associazione Madè. Lo spettacolo oggi va in scena a Montignosa, Massa Carrara, dopo il recente debutto ad Asti, in attesa della tournée invernale.

Laura Sicignano
Questi bambini non avevano idea di cosa li aspettasse, la Chiesa gli diceva che sarebbero finiti in mano ai comunisti che ne avrebbero fatto sapone

«SONO INCAPPATA in questa storia durante le ricerche per Donne in guerra, lavoro del 2008 scritto con Alessandra Vannucci, la stessa autrice de I treni della felicità. Il periodo della seconda guerra mondiale per me è sempre stato interessante», spiega la regista Laura Sicignano: genovese, con un nonno napoletano e uno siciliano, le storie di sradicamenti sono nel suo dna. Alle sue spalle molti spettacoli, tra cui un lavoro sull’odissea dei minori richiedenti asilo in Afghanistan e Nigeria. Nel futuro, un progetto sul più grande campo profughi al mondo su cui sta conducendo una ricerca. «La prima fonte per I treni della felicità è stato Cari bambini, vi aspettiamo con gioia, a cura di Angiola Minella, Nadia Spano, Ferdinando Terranova. Un testo introvabile, scritto dalle donne che raccontano la loro esperienza di quel periodo: alla fine l’ho scovato nella Biblioteca dell’Udi di Genova. Il viaggio di questi bambini di soli 4, 6 anni, fu in qualche modo iniziatico: non avevano idea di cosa li aspettasse, mentre una propaganda tremenda da parte della Chiesa gli diceva che sarebbero finiti in mano ai comunisti che ne avrebbero fatto sapone. È una storia rimossa, in cui le donne ebbero grande protagonismo, mettendosi insieme. È anche una storia di vergogna – quella che si provava a lasciare i propri figli ad altri. Una storia di virtù, che oggi forse appare noiosa. Ed è una storia che parla di mettersi in viaggio alla ricerca una vita migliore: noi che partivamo, mentre gli altri oggi arrivano qui».

I bambini in partenza foto di Gaetano Macchiaroli, courtesy S. Cappiello

NAPOLI, Roma, Foggia, Cassino. Nel 1947 partirono i primi convogli: i viaggi proseguirono fino al 1952. Destinazione: Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche. Dell’organizzazione capillare e riuscitissima si occupavano funzionari e dirigenti del partito, in particolare le donne che accompagnavano i bambini a destinazione. Le famiglie ospitanti erano di provenienza mista, spesso contadini già con diversi figli a carico, ex partigiani, lavoratori. Il periodo di soggiorno era di quattro mesi ma, come raccontano i protagonisti oggi ultra ottantenni, molti rimasero anche un paio d’anni. Nelle loro testimonianze ricordano quei mesi come il periodo più bello della loro infanzia. «Non si trattava di elemosina», sottolinea la Sicignano, «ma solidarietà che è qualcosa che chiama in causa l’intera comunità. I bambini andavano al bar e non li facevano pagare, il medico li curava gratis.

TUTTI contribuivano. Un’operazione organica alla ricostruzione di un paese in macerie materiali e morali. Accoglienza non era solo un letto pulito e un pasto caldo ma trattamento alla pari: si sono sentiti accolti come figli. È stato importante che questi bambini, che spesso provenivano da un contesto di violenza e deprivazione, abbiano potuto apprendere un modello differente, che si sia investito sulla loro emotività».

Lo spettacolo racconta da diversi punti di vista questo percorso. La regista spiega come le tre attrici, provenienti da zone diverse dell’Italia, abbiano contribuito alla scrittura condividendo riflessioni su temi molto intimi: cosa significa essere madri, la maternità è solo un atto biologico o politico? La scelta di accogliere non è essa stessa maternità?

«Una rete femminile ha organizzato questa macchina di pace: tra queste donne ci sono le madri costituenti, donne dell’Udi e del Partito Comunista come Angela Viviani, Teresa Noce, Maria Maddalena Rossi, Angela Minella, Miriam Mafai. Noi nominiamo tutte queste donne. È una ricostruzione senza protagonismi, un racconto corale perché di storia corale si tratta. Il gruppo di donne che ha organizzato i treni della felicità è lo stesso che ha reso possibile la nostra emancipazione, grazie alla legge sull’aborto, divorzio, il diritto di famiglia. Noi siamo le nipoti di queste donne». C’è la storia di Elvira Suriani, bracciante e sindacalista che fu caricata e arrestata dalla polizia a Scelba durante una protesta per le paghe da fame, assieme a un centinaio di persone. Il Partito fece accogliere i suoi figli in Emilia. Quella di Anna Berio, di Imperia, il cui figlio fu torturato dai fascisti. Lei accolse il figlio di Maria Maddalena Di Vicino da Napoli: le due si scambiarono lettere da «pelle d’oca».

PAOLA ZENI, una delle protagoniste del libro Gli occhi più azzurri di Simona Cappiello, finì da un’ostetrica emiliana, single e atea che, pur essendo autorevole, le lasciò una libertà incredibile: da sola crebbe questa bimba per circa due anni. Molti, dopo essere tornati a casa, per qualche tempo si scambiarono lettere con le famiglie ospitanti. Questo lavoro è anche un’occasione di riprendere quel filo nel tempo presente.

Sicignano racconta che al debutto in platea c’erano due discendenti di Anna Berio e Maria Maddalena Di Vicino emozionati, in lacrime. «È stato molto forte farli incontrare, è un modo per ricucire l’Italia, oggi così lacerata da contrapposizioni regionali pretestuose. Queste storie appartengono a tantissime italiane e italiani, sono rimaste nella costruzione dell’identità dei singoli e del paese. Adesso bisogna raccontarle. Si pensava che dopo la pandemia il teatro dovesse ripartire dalle proprie ceneri. Un teatro non auto referenziale e compiaciuto che racconti storie emblematiche di grandi e piccoli eroismi quotidiani che ci forniscono le coordinate. Siamo alla deriva, senza approdi: queste sono coordinate molto concrete. Ci salvano».