All’inizio di Le terre de la folie, film del 2009, Luc Moullet dichiara alla macchina da presa: «Non sono una persona normale. Vivo sempre un po’ discostato dalla realtà». È solo l’inizio di un’indagine psicologica, geografica ed autobiografica che agli occhi della moglie – Antonietta Pizzorno, che compare e battibecca col marito alla fine del film – non è altro che un goffo tentativo di giustificare la sua personale follia: ipotesi alla quale il regista si oppone senza troppa convinzione. Moullet non è in Italia un autore noto quanto dovrebbe, e l’uscita di Mémoires d’une savonnette indocile, la sua autobiografia appena pubblicata in Francia da Capricci, è una buona occasione per conoscerne la storia e calarsi in quella dei suoi quarantatré film. E come il suo cinema, anche questo libro è un capolavoro d’ironia e d’intelligenza.

Critico cinematografico e contrabbandiere della pellicola – per lui «il fratello del regista non è il romanziere, il pittore o il musicista, ma il contrabbandiere […], quello che deve lavorare di nascosto, senza far vedere le sue intenzioni, par far passare il vero oggetto del suo film per qualcos’altro, come il contrabbandiere deve far passare la cocaina come se fosse sale» – Moullet entra diciottenne nella neonata rivista dei Cahiers du cinéma e diventa subito il cocco della redazione: ha la metà esatta degli anni di Rohmer e qualche anno in meno di Truffaut, Rivette, Chabrol, Godard. È la cosiddetta banda dei cinque, che lui guarda con ammirazione e dalle cui labbra pende come un vero e proprio fan. Fratello minore della nouvelle vague e unico esponente comico del movimento, diventa regista già nel 1960 ma sempre con film piccoli, modesti dal punto di vista economico, e soprattutto autenticamente anticonformisti: deve dunque faticare per sbarcare il lunario. Un aneddoto può riassumere meglio di tanti altri la sua carriera: è Moullet, nel primo studio approfondito sul cinema di Samuel Fuller pubblicato nel 1959, a scrivere che “la morale est affaire de travellings”, ovvero quasi la medesima considerazione che, ripresa e invertita da Godard (“les travellings sont affaire de morale”), è diventata una delle frasi più celebri della storia del cinema. Il successo, a volte, è anche questione di ordine del discorso.

La sua esistenza ha i tratti avventurosi di chi identifica la propria vita con il cinema e si trova a fare film con pochi soldi, calcolando col bilancino ogni investimento e nello stesso tempo essendo costretto a trovare escamotage, architettare piccole truffe, ideare soluzioni piratesche. Il risultato è quello di un cinema libero che si posiziona al di fuori dell’industria ed è di fatto poco compreso, come mostrano gli alterni tentativi di attribuire a questo regista anarchico ossessionato dalla geografia posizioni di destra o di sinistra – mentre sarebbe più opportuno riconoscergli semmai una collocazione a est, oppure a ovest. E nonostante le retrospettive e gli omaggi in tutto il mondo, e un premio per la miglior interpretazione maschile conferitogli da Jean-Pierre Mocky al festival di Groland per La terre de la folie (unico regista insieme a Fuller a ricevere un premio come attore, dice con vanto Moullet: e in più per un documentario!), la considerazione minore di cui gode ancora oggi è testimoniata anche dal fatto che molti dei suoi film si trovano distrattamente abbandonati su YouTube – è un invito ad approfittarne – tanto da far immaginare al regista, nel suo Le prestige de la mort del 2007 prodotto da Paulo Branco, di fingere di morire per poter essere riscoperto, vendere tutti i suoi film e riempirsi di soldi.

«Sono un artista autistico aprassico, ed è quel che può dare una qualità rara ad alcuni dei miei film», scrive Moullet. I suoi interessi riguardano essenzialmente le trasformazioni del paesaggio umano: se nei suoi film è possibile assistere alla metamorfosi della Francia nel corso degli anni (le biblioteche, i supermercati, le stazioni della metro, le sale cinematografiche, le città, le campagne), i luoghi sono lo specchio di ciò che forse maggiormente lo appassiona, ovvero le abitudini e le vite delle persone. E l’aspetto fisico e quello intellettuale coesistono nelle sue opere perché mostrare insieme il gesto e la parola – che si tratti di rapporti sessuali (Anatomie d’un rapport) o di gare ciclistiche (Parpaillon), di nuoto o di danza (Ma première brasse) – significa provare a stemperare una visione del mondo manichea, se non addirittura bipolare, che è quella che il regista si attribuisce da sé. Nulla può fargli togliere dalla mente in effetti che chi non cura il proprio corpo facendo sport muore giovane (vedi, tra i grandi critici, Bazin, Truffaut, Delluc, Canudo, per non parlare di chi fa teoria del cinema che muore suicida, come Benjamin, Metz, Deleuze, Debord); che i registi simpatici spesso sono anche i più mediocri, perché mettono tutto il loro genio nella vita e non nei film; e infine, che «se non penso che tutti quelli che hanno delle auto siano dei cretini, ho tendenza a credere che tutti i cretini abbiano delle auto. E d’altra parte i registi migliori sono spesso quelli che non sanno guidare: Rohmer, Rivette, Hitchcock, Ėjzenštejn».

Nella sua lunga carriera Moullet non ha mai abbandonato la scrittura critica, che continua a rivendicare come un’attività altrettanto creativa della realizzazione di film, sin dalla necessità dell’adozione di uno stile: giovanissimo decise che era indispensabile scrivere in modo chiaro, seguendo l’esempio di Georges Sadoul, e che il suo scopo sarebbe stato anche quello di far ridere i lettori – cosa che gli fece guadagnare l’attenzione di Serge Daney, che cercava sempre per primi i suoi articoli sfogliando la rivista dalla copertina gialla. Ma la critica è creazione anche perché rivelare o riabilitare registi sconosciuti o dimenticati è un gesto concreto che serve a far esistere i loro film, e Moullet è orgoglioso del lavoro fatto su registi come Guiraudie, Jancsó, Skolimowsky, Troche, o più giovani come Isabelle Prim e Hendrick Dusollier.

A colpire all’interno della sua ricca filmografia non è soltanto l’attraversamento di vari generi – sul modello di Hawks e secondo il principio dei Cahiers du cinéma per il quale ogni nuovo film doveva essere un film contro il precedente – ma anche l’intempestività nella creazione di un percorso del tutto originale. Il film che i cinefili non possono perdere è certamente Les sièges de l’Alcazar, che nel 1989 rievoca la vita nelle sale cinematografiche alla fine degli anni Cinquanta e la contrapposizione Cahiers / Positif, rispetto alla quale stare con Cottafavi o con Antonioni significava definire il proprio posizionamento nel mondo – pur essendo pronti a cambiare idea in ragione di un innamoramento. Ma è soprattutto la sua analisi di aspetti minuziosi della società capitalistica (in film come Barres, Essai d’ouverture, Toujours plus, Toujours moins), vista sotto la lente d’ingrandimento dell’osservazione della stupidità e dell’ingegno umani, a renderlo un regista per certi versi piuttosto anomalo nel panorama del cinema francese; non soltanto per l’umorismo british, ma anche per aspetti più marcatamente tedeschi: un Courteline rivisto da Brecht, come lo definisce Godard; un Farocki alla luce della patafisica di Jarry, come potremmo azzardare noi. Il vertice del suo lavoro anticapitalista è certamente il pionieristico Genèse d’un repas del 1978, quello che Moullet avrebbe potuto chiamare Alla ricerca del tonno perduto e che è, marxianamente, un’indagine sulla merce: la domanda sull’origine dei prodotti alimentari (guardando una banana il regista scopre – e per certi versi inventa – la globalizzazione) lo porta ad affrontare le dissimmetrie delle condizioni e dei salari dei lavoratori in paesi diversi, l’alienazione del lavoro in catena di montaggio e la progressiva riduzione dei posti dovuta alla meccanizzazione dell’industria; ma anche il razzismo, l’imperialismo francese e il modo in cui il cinema stesso è partecipe e complice dei meccanismi di sfruttamento che portano quotidianamente il cibo nelle nostre tavole.

Tra le sue grandi passioni, oltre alle analisi critiche che gli faranno scrivere una fortunata Politica degli attori nel 1993 (su Gary Cooper, John Wayne, Cary Grant, James Stewart), anche l’esplorazione delle Alpi francesi. «Perché ci sono così tante montagne nei miei film? […] Perché ho cercato un territorio che fosse mio, […] così come a Parigi ho cercato di identificarmi con la famiglia dei Cahiers, poi con la Société des réalisateurs des films, poi con quella di Films d’ici e forse anche con quella della rivista cattolica RCT [quella che poi prenderà il nome di Télérama, ndr]. […] Lubitsch diceva che per fare cinema bisogna cominciare con il filmare delle montagne. Visto che sono rimasto al livello dell’apprendistato, ho continuato a filmare delle montagne. Forse un giorno, dopo cinquant’anni di carriera, mi sentirò abbastanza pronto per filmare qualcos’altro. Anche se non ci credo troppo…». E alla fine delle quattrocento pagine del libro, oltre alla voglia di recuperare molti dei film della sua vita ripercorsi passo passo nel corso dei vari capitoli, rimangono ancora molte domande e una curiosità che riguarda, ad esempio, uno tra i tanti progetti non andati in porto e che alcuni dei suoi estimatori aspettano da tempo. Mi riferisco a quello – cui non si fa cenno in questa autobiografia – del quale parlò anni fa in occasione di un passaggio quasi invisibile a Palermo: un progetto godardiano (ma à la Moullet), una sorta di Histoire(s) du cinéma esplicitamente dedicate al cinema documentario.