La prima scuola chiusa per coronavirus nella zona di Roma è stato il liceo “Pascal” di Pomezia. Per una strana ironia, a un chilometro e mezzo dalla scuola c’è uno dei primi laboratori al mondo che produrrà un vaccino da sperimentare contro il Covid-19.

Si tratta dell’Irbm Science Park, un’azienda specializzata nell’outsourcing di fasi di ricerca, sviluppo o di produzione per altre società farmaceutiche o centri di ricerca. Lo stabilimento era di proprietà Merck fino al 2009.

Alla chiusura, l’ex-consulente Piero Di Lorenzo lo ha rilevato e oggi tra le aziende che si servono dei servizi di Irbm c’è anche l’ex-casa madre. «Qui abbiamo prodotto qui un milioni di dosi del vaccino contro Ebola brevettato dalla Merck», spiega Di Lorenzo, oggi presidente e amministratore delegato di Irbm.Una delle divisioni del gruppo, la Advent, produrrà le prime dosi di un vaccino sperimentale attualmente allo studio all’Istituto Jenner dell’Università di Oxford.

Lo sviluppo del vaccino è iniziato con le ricerche dei biologi cinesi, che hanno descritto per primi le proteine dette spike che circondano il virus. Sono loro a permettergli di penetrare le cellule dell’organismo ospite.

La strategia vaccinale consiste nell’inserire in un altro virus innocuo, chiamato “adenovirus”, il gene che codifica la proteina spike. Una volta inoculato l’adenovirus, l’organismo produce la proteina spike e sviluppa gli anticorpi che la riconoscono.

A quel punto, se un coronavirus con le stesse proteine tenta di penetrare nelle cellule, il sistema immunitario le riconosce e blocca l’infezione.«Contiamo di inviare le prime mille dosi di vaccino a fine giugno», dice Di Lorenzo. La tabella di marcia prevede una sperimentazione sui topi e poi già a luglio i test di “fase 1” sugli umani, che servono a stabilire prima di tutto la sicurezza del vaccino. Poi potranno iniziare i trial sull’efficacia del vaccino, dapprima su pochi volontari (fase 2) e poi su gruppi più numerosi (fase 3)”.

Si parla di un anno e mezzo per compiere tutto il percorso fino alla commercializzazione. «Per Ebola ci sono voluti cinque anni», ammette Di Lorenzo. «Dipenderà anche dallo sviluppo dell’epidemia e dalla velocità delle autorità regolatorie nel rilasciare le autorizzazioni». Oltre al consorzio che fa capo a Oxford, ci sono diverse altre società in competizione per la ricerca di un vaccino. L’azienda farmaceutica che ha fatto più strada si chiama “Moderna”. Nella regione di Seattle, l’azienda sta già reclutando i volontari per la fase 1. Si prevede che essa duri almeno tredici mesi.

Sono in corsa anche colossi come Johnson & Johnson e Novartis. Al di là di annunci spesso dettati dal marketing, è realistico attendersi tempi più lunghi di quelli annunciati. Solo il 6% dei vaccini che iniziano la sperimentazione arriva sul mercato, e in media il processo richiede dieci anni. Le scoperte alla base del vaccino anti-Ebola prodotto a Pomezia risalgono al 2003 e furono realizzate all’Agenzia di sanità pubblica del Canada.

Infatti, quasi tutti queste queste ricerche ad alto rischio sono co-finanziate da governi, istituzioni internazionali e fondazioni filantropiche. Ma saranno le società farmaceutiche a incassare ricavi e profitti. Bruce Aylward, che ha guidato la delegazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) in Cina, ha suggerito un approccio diverso per la scoperta di un vaccino e ha citato il “progetto Manhattan”, cioè la collaborazione sotto l’egida pubblica di migliaia di scienziati verso lo sviluppo della bomba atomica che fu sganciata su Hiroshima e Nagasaki.

Il rischio di affidarsi al libero mercato è che i risultati della ricerca poi potrebbero essere riservati solo a chi potrà permetterseli. Il prezzo del vaccini dipenderà dal buon cuore di chi sarà riuscito a brevettarlo. Non sarebbe meglio affidarsi alla collaborazione, piuttosto che alla competizione basata sulla proprietà intellettuale? Di Lorenzo frena: «Ricerca e innovazione costano e la remunerazione del capitale è necessaria, le multinazionali non possono permettersi di scontentare gli azionisti. Se la Cina non riconoscesse i brevetti per produrre il vaccino e venderlo a costi inferiori, ci sarebbero conseguenze per tutti.

L’etica non va d’accordo con l’economia». Ma chi per lavoro studia la ricerca e lo sviluppo in campo farmaceutico è più scettico su questo approccio. Secondo Giovanni Dosi, economista alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, un investimento pubblico non sarebbe incompatibile con la competizione. «Quando la Nasa decise di andare sulla Luna, negli anni ‘60, non mise tutte le uova in un solo paniere, ma finanziava diversi progetti alternativi. L’importante è renderli efficienti in termini di risorse».

Secondo Dosi le industrie farmaceutiche siano restìe a investire soldi propri in nuovi vaccini. «Farmaci e vaccini sono diversi. Un farmaco si può verificare con relativa rapidità. Il vaccino richiede più tempo, perché bisogna verificare la risposta immunitaria contro le diverse varianti di un virus. Dunque è più rischiosa e le case farmaceutiche tendono a preferire i farmaci ai vaccini.

Anche perché un paziente può comprare lo stesso farmaco più volte, mentre il vaccino si compra una volta sola».L’economista ritiene che il sistema dei brevetti non sia il modo migliore di remunerare la ricerca. «I brevetti in campo farmaceutico sono un disastro. Indirizzano la ricerca in settori più redditizi, ma che non sono necessariamente quelli di cui ha bisogno la società. Per esempio, anche sulla ricerca di nuovi antibiotici si investe poco». Si potrebbe pensare a programmi di ricerca finalizzati? «Un approccio diverso, orientato all’obiettivo, secondo me è necessario in casi come quello degli antibiotici, o sulle immunoterapie oncologiche.

La Novartis ne vende una a circa trecentomila dollari a trattamento, ma si calcola che se fosse prodotta in ambito pubblico costerebbe solo diecimila dollari».”